Recensione Muhammad Ali's Greatest Fight (2013)

Stephen Frears sceglie di raccontare non il campione Muhammad Ali ma piuttosto il caso che si scatenò intorno alla sua decisione di obiettare in base alle sue credenze musulmane. Un soggetto potenzialmente formidabile, svilito da una sceneggiatura poco coraggiosa.

K.O. tecnico

Con il nome di Cassius Clay venne incoronato come il più giovane campione del mondo di pesi massimi, ma come Muhammad Ali fu immediatamente privato di quel titolo e condannato a 5 anni di reclusione per aver rifiutato la chiamata alle armi in Vietnam. Per oltre tre anni al campione fu vietato di combattere in attesa del verdetto dei vari appelli, fino a che fu l'intervento della Corte Suprema degli Stati Uniti d'America a dargli ragione e lasciarlo libero di andare incontro al suo destino, quello di diventare uno dei più grandi pugili di tutti i tempi.

In Muhammad Ali's Greatest Fight Stephen Frears sceglie di raccontare non il campione o le sue imprese ma piuttosto il caso, tanto politico quanto mediatico, che si scatenò intorno alla sua decisione di obiettare in base alle sue credenze musulmane e agli insegnamenti contenuti nel Corano. Il personaggio di Alì viene mostrato solo in (tante) immagini di reportorio, mentre il regista decide di concentrarsi eslusivamente sui giudici della corte suprema e sui loro assistenti, fornendo così un ritratto inedito della vita e del lavoro di queste persone che, come dice Richard Nixon in altro documento d'epoca, di fatto possono influenzare il presente e il futuro degli Stati Uniti più di quanto possano fare alcuni presidenti.

Non è questo il caso di Nixon stesso, visto che come sappiamo alcune sue scelte hanno condizionato fortemente (e ci verrebbe da dire negativamente) gli ultimi quarant'anni statunitensi, ma lo script di Shawn Slovo sceglie comunque di concentrarsi solo su quello che avviene all'interno della Corte Suprema di Washington D.C. e raramente coglie l'occasione di allargare il proprio spettro d'interesse e parlare della guerra in Vietnam e delle proteste di quegli anni. Si tratta di una scelta, se vogliamo, anche originale, ma che a nostro parere doveva essere necessariamente accompagnata da una sceneggiatura ben più coraggiosa e vivace.

Si potrebbe obiettare che trattandosi di un prodotto di stampo televisivo la scelta di trattare in modo così innocuo (e piatto) un argomento potenzialmente ricco di spunti e prospettive interessanti sia dettato dal target popolare, ma sappiamo bene che la stessa HBO (che produce il film) ha abituato i suoi spettatori a progetti di tutt'altro spessore, e in ogni caso guardando il film non può che venire in mente il West Wing di Aaron Sorkin, una serie tv (addirittura di un network quale la NBC) che trattava argomenti politici (dedicandosi spesso proprio alla Corte Suprema e al primo emendamento) in modo complesso e spesso ostico per gli spettatori medi senza mai per questo trattarli con sufficienza, ma piuttosto andando loro incontro con personaggi carismatici, dialoghi memorabili e sottotrame (anche personali) appassionanti.
Praticamente tutto quello che manca invece in questo film di Frears, in cui un soggetto potenzialmente formidabile è ben presto svilito da una realizzazione sciatta che non può essere salvata nemmeno dalla presenza di due protagonisti del calibro di Christopher Plummer e Frank Langella.

Movieplayer.it

2.0/5