Dopo La macchinazione sulla morte di Pier Paolo Pasolini e Ustica sulla storica strage aerea è questa la volta di Roberto Faenza e del suo La verità sta in cielo sul caso Emanuela Orlandi. Da qualche tempo a questa parte i registi italiani sono tornati ad occuparsi di cronaca, o meglio dei tanti misteri irrisolti che appartengono alla storia del nostro Paese.
Pare che per svegliarci dal torpore in cui siamo piombati da tempo immemore la classe intellettuale italiana (ammesso e non concesso che ne esista una) abbia pensato di fare ricorso alla settima arte senza però garantire sulla qualità dei tentativi. È un solo caso che tutti e tre i film sopracitati, compreso l'ultimo (al cinema dal 6 ottobre), sebbene in maniera diversa, risultino pessimi eredi di quel cinema politico, e al contempo fresco e visionario, di cui Francesco Rosi ed Elio Petri erano stati i più grandi esponenti negli anni Sessanta e Settanta?
Documentario vs docufilm
Concentriamoci sul film di Roberto Faenza. Dopo quei tonfi intitolati Anita B. e Un giorno questo dolore ti sarà utile, il regista torinese torna in sala con l'obiettivo di ricostruire i tragici eventi che portarono al rapimento della giovanissima Orlandi, cittadina dello Stato del Vaticano, il 22 giugno del 1983. Purtroppo, invece di farlo attraverso la forma congenita - il documentario - decide di affidarsi ad un atipico docufilm che penalizza il realismo e soprattutto la recitazione del cast - in particolare quella della brava Maya Sansa chiamata ad interpretare uno dei pochi personaggi di finzione inseriti in una vicenda già di sé complicatissima.
La sua Maria è una giornalista italiana residente a Londra che viene inviata dal suo capo (Shel Shapiro) a Roma nel tentativo di realizzare un servizio sugli ultimi sviluppi del caso. Per fare chiarezza si avvale della collaborazione della collega Raffaella Notariale (Valentina Lodovini), autrice del libro "Segreto Criminale", alle cui ricostruzioni il film di Faenza è liberamente ispirato.
Il fine giustifica i mezzi?
"Un assist per riaprire il caso", così il regista definisce questo suo ultimo lavoro che non trova giustificazione neanche nel talento puro di Greta Scarano, qui perfino in veste di trasformista dovendo prestare il (truccatissimo) volto ad una doppia Sabrina Minardi, la cinquantenne di oggi e la ventenne di allora. Da amante del boss Renatino De Pedis (interpretato nel film da un convincente Riccardo Scamarcio) quale fu per moltissimi anni la Minardi, pur essendo stata considerata inattendibile a più riprese dai giudici a causa del suo passato da tossicodipendente, è tutt'ora ritenuta una delle poche custodi dei segreti legati al rapimento della Orlandi. Purtroppo il gran numero di personaggi che passa in rassegna, i continui stacchi temporali e soprattutto le infinite ipotesi contemplate finiscono per confondere ancor più le idee dello spettatore su una storia misteriosa e frammentaria. A ciò si aggiungono dei dialoghi degni del peggiore sceneggiato di Rai 1 caratterizzati dalla scelta di un linguaggio patinato e didascalico.
Il pezzo mancante
Con il rispetto dovuto alle intenzioni del regista e della famiglia Orlandi, attivamente coinvolta nella realizzazione del film, sarebbe lecito aspettarsi lo stesso riguardo nei confronti del cinema, che rimane un'arte e non solo il mezzo per comunicare o raggiungere obiettivi, siano anche essi condivisibili come in questo caso. Il film di Faenza presenta due peccati originali: non ha un rigore stilistico - come denotano le immagini di repertorio inserite quasi a casaccio - ed è completamente privo di una dimensione emotiva pur trattando il rapimento di una ragazzina di soli 15 anni (di cui non è lecito sapere niente di niente) e il cui ricordo è vivido persino nella memoria di chi in quegli anni non era neppure nato. La verità sta in cielo è solo l'ennesimo film partorito dall'ideologia senza essere doverosamente supportato dalle idee.
Movieplayer.it
2.0/5