Il film di Denis Côté non imbocca il pubblico, non trasuda ideologie e non fornisce facili risposte. Si limita a evocare il lavoro nei suoi vari aspetti quotidiani rappresentando in maniera simbolica la fatica, la ripetitività, l'impegno e la dignità dei lavoratori.
Col passare del tempo, lo sguardo di Denis Côté diventa sempre più limpido. Il regista originario del Quebec ama l'astrazione, la sperimentazione, ma anche la semplicità e alla terza prova documentaria dopo Carcasses e Bestiaire ci regala quello che lui stesso definisce "un'allegoria astratta del lavoro". Se Bestiaire era quasi un film muto, stavolta Denis Côté segue l'impulso di riempire l'immagine con la parola, mai didascalica, sempre sorprendente. Visto che la realtà non è sufficiente per placare il suo desiderio di fare arte, il regista, autore e produttore di Joy of Man's Desiring - realizzato a Montreal in nove giorni con un budget quasi assente - interviene là dove la sua sensibilità gli suggerisce con interventi fictional scrivendo dialoghi e affiancando ai lavoratori sei attori che improvvisano battute e riflessioni. Il film si apre con un intenso prologo occupato dal primo piano insistito di una donna. La tuta da lavoro tradirebbe la sua identità (che sia un'operaia?), ma il tono sensuale e il contenuto del monologo (la giovane sembra fornire a un interlocutore di cui non conosciamo l'identità le 'regole' per poter lavorare) lasciano aperte varie possibilità. Starà allo spettatore decodificare il pensiero, sempre originale, che si cela nell'opera.
Working never killed anybody. Why take the risk?
Il lavoro, inteso nel senso più puro del termine, è quello manuale perciò Denis Côté monta e accosta con ipnotica fascinazione piani fissi di macchine in movimento, operai alla catena di montaggio o impegnati in lavori ripetitivi e alienanti, operaie tessili, fabbriche di caffè, di legname e officine. Ben presto l'elemento umano prende il sopravvento su quello meccanico. Vediamo lavoratori andare su e giù con la merce in mano, manovrare furgoni, fare pause in cui riposarsi o tenersi in forma facendo le flessioni o addirittura regalare intensi sguardi in macchina. Anche affrontando un argomento così serio e universale, Côté non rinuncia al suo humor surreale filmando improbabili dialoghi improvvisati come quello dedicato alla chiacchierata relazione sessuale tra il principe Carlo e Hassan IV° del Marocco (che per altro neppure esiste). A questi momenti curiosi si contrappone una struggente preghiera finale (scritta dal regista) in cui una giovane si affida a Dio affinché le permetta di trovare un lavoro per sfamare e soddisfare i bisogni dei propri figli. Allo stesso modo questa figura femminile si contrappone a quella dell'incipit, più cinica, addirittura quasi nichilista ("Ogni uomo ha un prezzo, che non deve essere necessariamente in denaro" afferma nel monologo), la quale torna nella seconda parte del film e nega un impiego senza pietà.
La parola allo spettatore
Il film di Denis Côté non imbocca il pubblico, non trasuda ideologie e non fornisce facili risposte. Si limita a evocare il lavoro nei suoi vari aspetti quotidiani rappresentando in maniera simbolica la fatica, la ripetitività, l'impegno e la dignità dei lavoratori. Il regista preferisce concentrarsi sulle parole che suonano quasi poetiche, sulla fiaba narrata nel finale da uno dei protagonisti, sulla bellezza dell'immagine e sulla potenza del suono, curatissimo e amplificato là dove necessario con interventi in postproduzione, piegando l'oggetto del discorso filmico al suo stile ermetico. Il lavoro si trasfigura, diventa riflessione, ritmo, filosofia, oggetto di piacere, di studio e di visione. Ma soprattutto, come ci suggerisce il titolo del film mutuato dalla Cantata di Bach che udiamo a tratti a commento delle immagini, il lavoro è la soddisfazione dell'essere umano. E' ciò di cui parliamo e a cui pensiamo per la maggior parte della nostra giornata creando aspettative, speranze e delusioni. In fin dei conti, è ciò che ci definisce come persone.