Lasciate che i poveri vengano a me
Il tema dell'immigrazione, fil rouge che lega parte delle pellicole italiane presenti in questa edizione della Mostra del Cinema di Venezia, torna prepotentemente nel nuovo lungometraggio fictional di Ermanno Olmi, intitolato Il villaggio di cartone. Qualche tempo fa l'anziano maestro aveva comunicato l'intenzione di abbandonare i film di finzione per dedicarsi esclusivamente ai documentari, ma una lunga malattia che lo ha costretto a letto lo ha spinto a cambiare idea e a ideare questa nuova pellicola durante l'inattività forzata. Ne Il villaggio di cartone tornano temi e stilemi cari al regista quali la pietas cristiana, il valore dell'accoglienza, il ruolo della chiesa nel mondo odierno e la crisi della civiltà occidentale. Stavolta una chiesta dismessa e semidistrutta diviene il rifugio di un gruppo di immigrati clandestini sopravvissuti a una disastrosa traversata in mare. Il luogo di culto che Olmi fotografa con insistenza, soffermandosi sui singoli dettagli e sull'immagine del crocifisso impacchettato e pronto per essere trasportato altrove per restituirgli, nonostante tutto, la sua dimensione sacrale, assume un nuovo valore grazie a coloro che vi si installano ridando senso alla casa di Dio.
Col passare del tempo per l'anziano Olmi le sfumature e le ambiguità proprie della natura umana si vanno attenuando e tutti i personaggi che fanno parte del dramma, dall'anziano prete (Michael Lonsdale) al sacrestano traditore (Rutger Hauer), dai rappresentanti della legge (capitanati dall'inflessibile Alessandro Haber) fino agli immigrati stessi, sono costretti a prendere posizione nella lotta tra ingiustizia mondana e carità cristiana, tra bene e male. La visione cristiana del mondo è dominata dall'esistenza del libero arbitrio che permette di scegliere in totale libertà. La manciata di personaggi rappresentata da Olmi si trova, dunque, di fronte a un bivio. C'è chi aderisce al messaggio evangelico fino in fondo, anteponendolo alle leggi umane, e mette a repentaglio la propria libertà per proteggere i bisognosi (in questo caso gli immigrati clandestini) e c'è chi lo boicotta, chi si piega docilmente agli eventi esterni affidandosi alla bontà altrui e chi trova nella violenza l'unica risposta possibile alle ingiustizie del mondo.
Pur non nascondendo la sua natura di parabola morale e sottilmente manichea, Il villaggio di cartone mette in scena una situazione assolutamente realistica. Il film, intriso di religiosità, contiene un forte afflato mistico accompagnato da un'accesa denuncia nei confronti dell'opulenta società occidentale. Olmi mette la sua sferzante opinione in bocca a uno degli immigrati, il quale decide di rinunciare al suo viaggio per fare ritorno in patria sostenendo che l'Africa può ancora migliorare, mentre il mondo capitalista ormai non può che proseguire nella sua opera di autodistruzione. Il messaggio umanitario lanciato da Ermanno Olmi oggi è più che mai attuale e coraggioso, ma il contenuto 'importante' della sua opera viene soffocato da uno stile retorico e talvolta ridondante tipico dell'ultima fase della sua filmografia. L'uso instistito di immagini simboliche, un montaggio retorico e dialoghi poco realistici, peggiorati dalla recitazione enfatica degli interpreti e dal doppiaggio italiano, appesantiscono la visione creando un attrito tra il contenuto 'alto' e la forma a tratti inadeguata. Spesso gli attori sembrano sperduti l'uno di fronte l'altro e soffocati da un'ambientazione claustrofobica che, per motivi logistici e di budget, oscilla tra l'interno della chiesa e la casa dell'anziano prete. Olmi è portatore di uno sguardo antico in un cinema in continua evoluzione linguistica e tecnologica, al quale però corrisponde un punto di vista sulla società attuale lucido e modernissimo. Per questa ragione, al di là delle imperfezioni, non possiamo non sottolineare l'importanza del suo ritorno alla regia e la coerenza nello sforzo di restituire alla settima arte il suo valore morale ed educativo.
Movieplayer.it
3.0/5