Essere Julian Assange
Che il fenomeno Wikileaks diventasse presto un film era prevedibile, forse persino doveroso. Hollywood, infatti, ha sempre fictionalizzato e riletto gli snodi decisivi della storia americana (dall'assassinio di Lincoln all'11 settembre) spesso fornendone una sua versione con i fatti ancora in itinere, prima che la storia potesse compiutamente esprimersi su di essi. Che il cinema raccontasse la creatura di Julian Assange, e che la raccontasse quando il suo impatto culturale fosse ben lungi dall'essersi esaurito (vedi il caso Snowden) era quindi un evento scontato. Meno semplice era produrre un'opera che mostrasse equilibrio nell'affrontare il complesso materiale di partenza; che da un lato evitasse di concentrare la sua attenzione sulla figura di Assange, ignorando l'impatto dirompente della sua azione sui modelli di informazione vecchi e nuovi, sulla politica, sulla percezione stessa dei flussi comunicativi; e che dall'altro restituisse un ritratto convincente di questa figura, evitando di farne, a seconda dei casi, un guru della libertà di informazione o un terrorista mediatico senza scrupoli, in cerca di consenso e visibilità personale. E' bene premettere che Il Quinto Potere non è riuscito, fino in fondo, a raggiungere quest'obiettivo, malgrado le indubbie ragioni di interesse dietro la narrazione per immagini della creatura di Assange, e la convincente caratterizzazione del suo demiurgo ad opera di Benedict Cumberbatch.
Il film di Bill Condon prende spunto da due distinti libri sull'argomento, opera rispettivamente di Daniel Domscheit-Berg e di David Leigh e Luke Harding. Proprio il punto di vista del primo, braccio destro poi pentito (e a sua volta rinnegato) di Assange, sembra essere quello privilegiato da quest'opera, che si concentra soprattutto sull'amicizia tra i due hacker Julian e Daniel (quest'ultimo col volto di Daniel Bruhl) sulla condivisione iniziale dei valori della trasparenza e della protezione delle fonti, sulla nascita del sito e sulla sua vertiginosa ascesa, e sui successivi contrasti alimentati dall'ego, sempre più fuori controllo, del leader. Un'ottica, quindi, inevitabilmente (e dichiaratamente) parziale, che finisce però col mostrare il limite di concentrare il suo sguardo sulla figura di Assange, sacrificando il contesto: paradossalmente, persino l'impatto del lavoro per Assange sulla vita personale di Berg è sacrificato, con solo qualche sequenza a raccontare la difficile coesistenza della vita da "cane da guardia della democrazia", con una love story che resta elemento assolutamente secondario. Come mostrato da un'eloquente sequenza, dal taglio onirico, in cui vediamo la figura di Assange moltiplicarsi e occupare tutte le scrivanie dell'ufficio, è il capo carismatico/guru/ispiratore a occupare costantemente la ribalta: con la sua personalità complessa e strabordante, la sua missione (in)seguita con dedizione quasi calvinista, il suo fare manipolatorio e autoritario, il suo sguardo sfuggente e inafferrabile: tutte caratteristiche rese al meglio da un Cumberbatch (già interprete, in Sherlock, di un personaggio dai tratti in parte simili) la cui prova resta il maggior motivo di interesse del film. A lasciare perplessi, di questo Il quinto potere, è anche il taglio visivo adottato dal regista: se il prologo è convincente, con un rapido montaggio degli eventi chiave della storia americana recente, e della loro rappresentazione mediatica, in seguito Condon sembra eccedere e caricare il film di espedienti (dolly circolari, panoramiche a schiaffo, montaggio serrato) che il più delle volte non presentano una reale giustificazione narrativa. E' come se, nell'intento di dare una struttura e un ritmo da thriller a una vicenda che, per com'è stata scritta, mal si adatta ai tempi e ai modi di rappresentazione del genere, il regista abbia deciso di sovra-dirigere il film; col risultato di apparire spesso ridondante e fuori tono. Un "incanto" visivo che serve a coprire, per quanto possibile, la sostanziale mancanza di mordente dello script, che si affida in misura eccessiva al carisma e al magnetismo del suo protagonista. Persino un attore come Daniel Bruhl, che abbiamo recentemente ammirato nel ruolo di Nicky Lauda in Rush, sembra qui sottoutilizzato, non tanto a livello di mera presenza in scena (ovviamente, in sé, consistente) quanto proprio in termini di pregnanza, e di capacità di restare nella memoria, del personaggio. Non ogni cosa, tuttavia, è da buttare, in questa sorta di political biopic su un personaggio (e una realtà mediatica) di primo piano di inizio secolo: la costante presenza in scena di Cumberbatch riesce ad animare, e a dare consistenza, a quei dialoghi in cui si confrontano, oltre che visioni del mondo diverse, anche modelli di giornalismo, e modi di intendere la "missione" di informare, radicalmente differenti. E poi, in fondo, la "parzialità" del film è sostanzialmente riconosciuta nella sequenza finale, in cui il film adotta, in modo divertente ed efficace, la strategia del meta-cinema e dell'ammiccamento decostruttivo allo spettatore.
Movieplayer.it
3.0/5