Quando nel 1933 James Hilton scrisse Orizzonte Perduto diede inizio al mito di Shangri-La, ossia un luogo di pace e tranquillità dove il tempo sembra essersi fermato. Per ottenere tale armonia la comunità, per pura convinzione globale e non per imposizione di legge, ha bandito alcune debolezze umane come come l'odio, l'invidia, l'avidità e l'ira, trasformando così il luogo in una sorta di Eden materiale e spirituale in cui gli abitanti occupano gran parte della loro giornata nell'evoluzione interiore di se. Nonostante si tratti di una immagine retorica e della proiezione di un desiderio interiore di rinascita, da quel momento molti avventurieri e sognatori si sono lanciati alla disperata ricerca di questa società utopistica senza trovarne alcuna traccia. Ma se avessero cercato nel posto sbagliato e con il nome errato? E se la nuova Shangri-La, in verità, sorgesse in Sierra Nevada, nel sud della California invece che in Tibet, e si nascondesse sotto il nome di Ananda?
Questo è quello che, almeno in parte, sta cercando di scoprire Juliet Palmer, rampante giornalista newyorkese mandata dal suo direttore a svelare i "trucchi" che si nascondono dietro l'organizzazione di una comunità che sembra aver scoperto il segreto della felicità. Con una certa dose di scetticismo Juliet si reca all'Ananda World Brotherhood Village per conoscere e capire quale peso può avere una comunità spirituale nello sviluppo di soluzioni alternative ai problemi del mondo. Qui, venendo a contatto con tutti i membri e con il visionario fondatore, comprende che la risposta potrebbe essere più semplice del previsto. Attraverso il recupero del tempo, l'applicazione quotidiana della meditazione scopre come uno spirito elevato può mettersi a servizio degli altri e dell'organizzazione avanzata di un gruppo. In questo senso ad Ananda non si parla solamente di riequilibrare se stessi, ma di portare questa armonia in tutto quello che ci circonda utilizzando energia sostenibile e applicando un'agricoltura naturale e rispettosa del terreno. A chiudere il cerchio, e a conquistare definitivamente le resistenze di Juliet, è la presenza di una spiritualità universale che non ha nome e di una forza comunitaria tradotta in sostegno e vicinanza. Dunque Shangri-La sembra esistere veramente. Forse.
Gli uomini dietro il mito
Paramhansa Yogananda e Swami Kriyanada sono i due protagonisti assoluti su cui non solo sono state costruite le fondamenta di Ananda, ma che hanno anche dato vita all'esperienza cinematografica di Finding Happiness - Vivere la felicità. Il primo è il maestro indiano scomparso da molti anni cui si deve la filosofia spirituale della comunità, il secondo, invece, ha rappresentato il realizzatore dell'utopia e lo sceneggiatore di questa storia a metà tra realtà e finzione. Così, mentre Paramhansa è l'ispirazione di uno stile di vita e di una nuova visione del mondo circostante, Swami rappresenta il costruttore, colui che nel 1969 ha progettato ed edificato un mondo diverso in California, fino a quel momento solo pensato. Nonostante la loro forza evocativa, però, queste due figure rimangono sullo sfondo apparendo solo per iniziare e terminare un viaggio fisico e spirituale di scoperta. Ed in questa struttura narrativa, in cui si lascia molto spazio alla vita della comunità e ai suoi protagonisti, Juliet (Elisabeth Röhm) rappresenta una guida d'eccezione il cui compito è rappresentare la visione scettica della spettatore, vestendo i suoi dubbi e perplessità. Elementi, però, che vengono abbandonati molto velocemente mano a mano che i passi della donna si incrociano con quelli dei singoli abitanti. Perché, al di là di tutto, il film, voluto, scritto, prodotto e realizzato da Ananda ha uno sapore propagandistico che disturba per l'intera durata della visione.
Tra finzione e realtà
Quanto spazio intercorre tra la verità e l'illusione, cinematografica e non? Questo è l'interrogativo che potrebbe accompagnare lo spettatore durante la visione di Finding Happiness - Vivere la felicità, diretto da Ted Nicolaou. Una domanda che nasce tecnicamente dalla natura ibrida del prodotto, ossia a metà tra il documentario e la finzione scenica, e che si riflette in qualche modo sull'autenticità profonda della realtà messa al centro della narrazione. In questo modo, pur riuscendo ad andare oltre l'interazione non sempre fluida e naturale dell'attrice Elisabeth Röhm con i componenti reali della comunità, i dubbi rimangono sulla composizione di un mondo dove non sembra esserci spazio per le zone d'ombra. Un'assenza che lascia sconcertati da un punto di vista cinematografico, offrendo la visione d'immagini eternamente inondate di luce e colori sgargianti, e da quello umano, descrivendo una realtà in costante equilibrio con se stessa. I due elementi, fusi l'uno con l'altro producono una sorta di perfezione estetica e interiore che, proprio nella sua estrema pulizia, sconcerta lasciando un disperato desiderio d'imperfezione.
Conclusione
Scritto, prodotto e realizzato dalla stessa comunità di Ananda, Finding Happiness è un viaggio dentro un mondo diverso che stupisce non tanto per la sua eccezionalità, ma per quella patina di perfezione che tutto ricopre.
Movieplayer.it
2.0/5