Ecco un altro esordio da tenere in considerazione presentato Torino Film Festival. Call Girl dello svedese Mikael Marcimain è il densissimo racconto di un caso di cronaca che fece scalpore in terra scandinava nella metà degli anni '70. Anche i rappresentanti politici di una nazione illuminata e socialmente all'avanguardia come la Svezia avevano i propri scheletri nell'armadio.
Il paese viveva un'epoca di grande confusione di cui la liberazione sessuale fu probabilmente solo la punta dell'iceberg. I socialdemocratici rischiavano di perdere la leadership dopo anni di governo e in quei giorni convulsi venne scoperto un giro di squillo d'alto bordo che frequentavano personaggi di grande spicco, tra cui il ministro della Giustizia. Tra quelle prostitute c'erano anche due minorenni, Iris e Sonja, affidate ai servizi sociali per via dei loro comportamenti ribelli. Affascinate dal denaro facile e dalla carismatica Dagmar Glans, le due entrano a far parte di quel mondo che lentamente le consuma e le annulla. Ad indagare su quei movimenti sospetti c'è solo un funzionario della polizia che, giorno dopo giorno, deve fare i conti con l'ostracismo dei capi che più di una volta gli mettono i bastoni tra le ruote.
I pilastri della società
Per meglio inquadrare l'opera alcuni hanno scomodato un paragone illustre come La talpa di Tomas Alfredson (di cui Marcimain ha diretto la seconda unità) vuoi per l'incedere lento del racconto e per la maniacale cura del décor dell'epoca, ma nonostante l'accurata ricostruzione e l'efficacia stilistica, Call Girl non possiede la stessa umanità della pellicola di Alfredson nella descrizione dei personaggi, quello sguardo partecipato e mai inquisitorio che si imprime nella testa, negli occhi e nel cuore. I tanti protagonisti sono essenzialmente delle pedine che vogliono coprire e proteggere i privilegi conquistati e non delle figure in crisi, pervase da un'inquietudine opprimente.
Se il racconto fosse stato asciugato da qualche passaggio a vuoto, probabilmente ci saremmo trovati davanti ad un'opera più coinvolgente, ma Marcimain ha voluto dare voce (per quanto possibile) ad ogni singola istanza, soffermandosi in particolare sulla dolorosa vicenda di Iris (Sofia Karemyr), che resta sempre aleatoria nonostante le insistite sottolineature, sulla tenacia mal ripagata di Sandberg (Simon J. Berger) e, soprattutto, sulla mostruosa figura di Dagmar Glans, l'eccellente Pernilla August, forse l'unico personaggio dalla reale statura tragica che avrebbe meritato maggior spazio. Così facendo l'accumulazione degli indizi, la graduale rivelazione della verità, soffocano la storia, senza farla esplodere.
Conclusioni
Thriller atipico e senza ritmo, Call Girl mostra, ma non approfondisce. Non è un caso che al di là di qualche ironica contrapposizione tra i discorsi libertari del politico di turno e i suoi comportamenti abietti, a mancare sia anche una certa critica sociale; scelta che di per sé non sarebbe neanche condannabile, se non fosse per il fatto che le storture del potere (e non è una giustificazione ammettere che siano presenti in ogni momento della storia e a qualunque latitudine) erano profondamente legate a quelle mutazioni sociali; tanto per inquadrare il problema, al vaglio dei governanti svedesi c'era un disegno di legge sui reati sessuali che voleva abolire l'incesto e depenalizzare la pedofilia. Il risultato finale quindi è un film visivamente affascinante che Marcimain dirige al meglio delle sue possibilità, ma che stimola in maniera confusa lo spettatore a riflettere sulla violenza perpetrata ai danni di due adolescenti da uomini senza moralità.
Movieplayer.it
3.0/5