Recensione Benvenuti a Saint-Tropez (2013)

A lungo andare tutti i personaggi, come le situazioni ipotizzate, perdono gran parte della loro efficacia, mixati vorticosamente in un insieme di eventi e stacchi temporali capaci solo di togliere continuità alla narrazione e di bloccare ripetutamente il ritmo comico.

Sono solo affari di famiglia

La famiglia è un affare impegnativo ed anche dispendioso, verrebbe da dire, visto che Danièle Thompson ha utilizzato un budget di ben quattordicimilioni di euro per raccontare le vicende bizzarre, ma pur sempre quotidiane, di un nucleo diviso da differenze religiose e stile di vita. Se a questo, però si aggiungono i dati non confortanti del box office francese, secondo il quale Benvenuti a Saint-Tropez avrebbe ottenuto il titolo di film meno redditizio dell'anno, si comprende che i soldi non solo sono insufficienti a comprare la felicità ma anche i successi cinematografici.


Così, viste le premesse e l'accoglienza gelida riservata al film dal pubblico francese, non ci sa aspetta certo che gli spettatori italiani siano i fautori di un cambiamento di rotta, decretando un successo trionfante, oltretutto sul finire della stagione. Ma, appurato questo, quali sono gli elementi che hanno minato un progetto nato per vincere, almeno sulla carta? Sicuramente non la presenza della Thompson dietro la macchina da presa che, dopo i successi commerciali di Pranzo di Natale e Jet Lag, tanto per nominarne alcuni, rappresenta la garanzia di un rientro economico per qualsiasi produttore. Sarà per questo che la Pathé, pensando di puntare sul sicuro, ha investito più di quanto il film e la messa in scena di una vicenda fatta di situazioni e personaggi necessitasse.

Da parte sua anche il soggetto, se non proprio originale, ha la capacità di utilizzare tutti gli elementi necessari alla commedia con brio in cui i cugini d'Oltralpe sembrano eccellere ormai da tempo. Ecco, dunque, che Zen, ebreo osservante, e Roni, creatore di una famosa linea di gioielli, danno vita a tutte le contrapposizioni e idiosincrasie di una famiglia sconnessa per arrivare alla conclusione che, alla fine, il legame di sangue riesce a vincere su tutto. Ad arricchire la confusione creata da questi due fratelli diversi, poi, si aggiunge un nonno allegramente affetto da Alzheimer, una moglie "soda" e superficiale e due cugine che, come se non bastasse, sono inconsapevolmente innamorate dello stesso uomo. Il tutto distribuito lungo più di un anno solare in cui la rigorosità dei funerali ebraici si sovrappone all'allegria chiassosa di matrimoni dispendiosi e la melodia della musica "alta" lascia spesso spazio allo swing di Sinatra che fa subito piano bar. Un intreccio, dunque, che non lascerebbe sospettare alcun punto debole se non quello dello sviluppo e della realizzazione finale. Ed è proprio in questa fase che, tutti i personaggi, come le situazioni ipotizzate, perdono gran parte della loro efficacia, mixati vorticosamente in un insieme di eventi e stacchi temporali capaci solo di togliere continuità alla narrazione e di bloccare ripetutamente il ritmo comico.
Allo stesso modo i continui cambiamenti di location, oltre a far girare senza molto senso i personaggi tra Parigi, New York, Londra e Saint Tropez, non aggiungono nessun elemento fondamentale alla narrazione se non quello di far aumentare vorticosamente il budget iniziale. Così, in questo andare e venire, lasciarsi e ritrovarsi di fronte al feretro di una moglie ebrea mantenuto fresco con il ghiaccio sintetico o in navigazione su uno yacht al largo della costa francese discutendo dei molti quesiti nascosti nel Talmud, i protagonisti tentano di dare vita sempre più frettolosamente e caoticamente alle caratteristiche di quell'indecisa umanità che è stata affidata loro. Uno scopo che, né la bellezza morbida di Monica Bellucci prestata alla farsa, né la serafica ironia di Kad Merad, hanno raggiunto o lontanamente sfiorato. Anzi, i due interpreti, insieme a Eric Elmosnino, la giovane Lou de Laàge e Clara Ponsot sono riusciti solamente a definire una realtà caratterizzata da una fastidiosa superficialità che, pur contenendo chiaramente al suo interno il fine ultimo della satira, proprio non riesce ad uscir fuori dall'immagine patinata di una pubblicità di Valentino, con tanto di ragazza vestita in rosso e la magica bellezza di Place Vendôme.

Movieplayer.it

2.0/5