Recensione And Everything Is Going Fine (2010)

Per il suo primo documentario, Soderbergh sceglie un protagonista d'eccezione: quello Spalding Gray che tanto ha saputo farsi amare dall'America per la sua pungente, tragica comicità, e che tanto ha contribuito alla riflessione sul senso dell'arte.

Quando la vita diventa un'opera d'arte

E' uscito ieri al cinema Contagion, già applaudito pochi giorni fa a Venezia, ma anche al Milano Film Festival Steven Soderbergh è uno dei protagonisti più attesi, qui presente con uno dei suoi progetti più intimi e introspettivi, ma che non per questo manca di ambizione. Un certo gusto per il documentario il regista di Atlanta l'ha sempre avuto, e qui ne realizza uno vero e proprio, dedicato all'attore e commediografo Spalding Gray, morto suicida nel 2004, con cui Soderbergh aveva collaborato in due occasioni.

Gray ha ottenuto la celebrità grazie ai propri monologhi, una forma d'arte a cui è approdato dopo un lungo percorso, non privo di difficoltà e delusioni, e And Everything Is Going Fine è, coerentemente, un monologo, in cui il Gray giovane, quello maturo e quello ormai anziano si sovrappongono, rubandosi la parola a vicenda nel ripercorrere le fasi salienti della propria vita, artistica e non. Tutto questo non solo grazie alle registrazioni degli spettacoli che portava con successo in giro per il mondo, ma anche e soprattutto attraverso interviste, filmati domestici, conversazioni private che aggiungono ulteriori sfumature ad una personalità che, già dal primo momento, appare tutt'altro che monolitica. Soderbergh ci presenta il suo protagonista raffigurandolo da subito in medias res, nel suo elemento naturale: il palcoscenico. D'altronde, Gray stesso sosteneva che, mentre la maggior parte delle persone nasce indifferenziata, e sceglie consapevolmente il proprio futuro umano e professionale, altri, tra cui egli stesso, nascono attori, e non c'è nulla che si possa fare per opporsi a questa realtà. L'unico metodo per venirvi a patti è giocare a interpretare la parte di se stesso, usare quanto si è e quanto si ha per decodificarsi e decodificare il mondo.
Più racconti di te stesso, più cose di te stesso scopri, ricordi, comprendi: è questo che Gray ha imparato nei suoi primi spettacoli, di fronte a una platea sempre più vasta nonostante la durata della performance si allungasse inesorabilmente, all'aumentare delle associazioni, dei particolari che mano a mano scopriva, e che scopriva essere importanti: Soderbergh compie con il suo film un percorso equivalente, creando parallelismi tra la visione giovanile e quella adulta di Grey, disvelandoci come il tempo e la memoria possano creare connessioni sempre nuove, sempre diverse, andando insieme a comporre quello che siamo. Il rapporto con la madre, con l'amore, con la carriera, con i figli e, più di ogni altro, con la morte: tutto passa sotto lo sguardo arguto e cinico, ma anche in qualche modo sognante, romantico di Gray, un uomo determinato ad attraversare ogni esperienza e che rimpiangeva di non poterlo fare, che non smetteva mai di farsi domande, come l'Amleto che avrebbe voluto interpretare negli anni degli esordi, che attraverso l'ironia rappresentava la tragedia di vivere, quando per vivere si intende più del mero esistere. Non a caso Soderbergh sceglie di sottolineare con insistenza il suo definirsi "un tipo da caos": non esiste il destino, siamo solo noi di fronte a quello che ci succede, e proprio in questo continuo affrontare l'insensato e l'imperscrutabile sta il senso dell'arte e, in ultima analisi, della vita.

Non sappiamo se il regista condivida o meno questa filosofia, ma senz'altro anche a Soderbergh si può associare la stessa passione nel raccontare. Per Gray l'unica eredità possibile era quella costituita dalle proprie storie, ed è solo diventando una di esse che si sentiva in diritto di aspirare all'immortalità: Soderbergh, con un'opera sincera, toccante e perfettamente affine allo spirito del suo protagonista, non ha fatto altro che dare il proprio contributo a questo tentativo.

Movieplayer.it

3.0/5