Racconti di ordinario dolore
In una baraccopoli ai margini della società si incrociano diversi tipi di umanità disperata. Vicende di tragedie personali, lutti, violenze e tradimenti vissute con rassegnato dolore ma anche incredibile e inaspettata speranza.
Al filone shakespeariano-samuraistico Akira Kurosawa ha sempre affiancato un altro, più rilassato umano e compassato. Parlo di film come L'Idiota, Vivere, Sogni e per l'appunto Dodesukaden, simbolo di un cinema che persegue diversa vie e diverse forme. Al modernismo raffinato delle ricostruzioni del giappone feudale sono solitamente contrapposte visioni espressioniste della vita quotidiana per favorire una visione empatica.
E' un cinema semplicissimo (apparentemente), un cinema delle emozioni.
In particolare Dodesukaden "dà nuovo significato alla parola umanità" (la frase non è nostra), racconta di diverse tragedie di una baraccopoli. Morti, incesti, violenze mentali e fisiche e inadeguatezze varie. Storie di uomini e donne legate da nulla se non dalla compresenza geografica e dallo sguardo bonario del regista che tuttavia non rinuncia alla sua messa in scena sofisticata, solo la maschera dietro una semplicità superficiale che favorisca lo scorrere degli eventi e (una volta tanto) la recitazione.
Questo è il primo film a colori del maestro giapponese che per cominciare bene ne fa subito un uso espressionista: le ebrezza dell'alcol seguono sempre i toni del giallo e del rosso, mentre le scene di dolore e malattie i toni della cenere e via dicendo.
Tenendo la macchina da presa più ferma del solito Kurosawa riempie ogni scena di elementi con una cura inverosimile per il dettaglio. Un piacere continuo.
E' noto che il film non andò bene (e non me ne stupisco data la raffinata lentezza e la sospensione del ritmo) e per questo Kurosawa tentò il suicidio. Giusto per dire che uomo era.