Recensione Il gusto dell'anguria (2004)

Tra tentazioni hard-core, siparietti da musical decisamente stranianti per contenuti e significati ed ossessioni formali, Tsai Ming-Liang ci proietta all'interno di un contesto piuttosto avaro di significati e di riflessioni instaurando la forte sensazione della gratuità.

Quel che resta del sesso

In una Taiwan in crisi idrica la popolazione decide anche su consiglio delle istituzioni di scegliere l'anguria come sostituzione privilegiata dell'acqua per dissetarsi. Un attore porno (interpretato da Lee Kang-Sheng, presenza fissa nel cinema di Tsai Ming-Liang) pare fortemente ossessionato da un'idea del sesso strettamente aderente con la sua professione e conosce all'interno del suo palazzo una giovane ragazza indecifrabile, innamorandosene. La loro relazione sarà, però, attraversata da molteplici dubbi e ossessioni.

Tra tentazioni hard-core, siparietti da musical decisamente stranianti per contenuti e significati ed ossessioni formali, Tsai Ming-Liang ci proietta all'interno di un contesto piuttosto avaro di significati e di riflessioni instaurando la forte sensazione della gratuità. Dubbio più che legittimo per un film che mette confusamente molta carne al fuoco con l'intenzione premeditata di spiazzare lo spettatore, rifiutandosi intellettualisticamente di fornire al pubblico una qualsiasi chiave di lettura per la sua interpretazione che non sia una forzatura dialettica.

Un cinema 'seminale' che vuole raccontare, tacendo ed estetizzando, di corpi inconciliati, distanze, solitudini, impossibilità del sesso, masturbazione e necrofilia adottando una sovrabbondanza espositiva eccessiva e fintamente trasgressiva. Accusato preventivamente di pornografia e di eccessi disturbanti, la pellicola fa infatti sfoggio, un po' furbescamente, dell'ostentazione, fornendo un campionario vario di coiti disperati, eiaculazioni e perversioni senza in realtà affrontare nessuna delle questioni elencate e dimenticandosi di fornire un significato pregnante al tutto.

Eppure, nonostante quanto detto, quello a cui si assiste non è un film disprezzabile su tutta la linea come spesso accade a analoghe pellicole a rischio di autocompiacimento autoriale. Nonostante questo Tian bian yi duo yun sia il suo film più debole e forse anche meno sincero, il regista taiwanaese non lesina alcune scene di ottima fattura proponendo ancora una volta un cinema potente che in ogni modo rimane incollato addosso a chi ha la pazienza di fruirlo in tutto il suo fascino visivo: dominato da lunghi piani fissi, tempi dilatati, ciclicità degli spazi, angolazioni doppie e da una ricercatissima composizione dell'inquadratura. Peccato che a tutto questo non faccia da contrappunto un contenuto degno di nota.