Quattro strade, il corto di Alice Rohrwacher su MUBI: “Sala o computer, l’importante è affidarsi alla visione”

Intervista ad Alice Rohrwacher, regista di Quattro strade, corto girato durante il lockdown ora disponibile sulla piattaforma di streaming MUBI.

Cannes 2014: Alice Rohrwacher durante il photocall per Le meraviglie
Cannes 2014: Alice Rohrwacher durante il photocall per Le meraviglie

Parlare con Alice Rohrwacher è un'esperienza avvolgente: si lascia andare generosamente al flusso di parole, ti inonda di pensieri, nella sua voce c'è una calma che sembra provenire da una fonte piena di luce e saggezza. Come quella delle piante e degli alberi che ritornano in ogni sua opera, da Le Meraviglie e Lazzaro felice fino a Quattro strade, corto realizzato durante il lockdown e ora disponibile sulla piattaforma di streaming MUBI.

Snc Alice Rohrwacher Foto Di Eduardo Castaldo
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Girato in Umbria ad aprile 2020, dopo il ritrovamento di una vecchia cinepresa 16mm e della pellicola scaduta, Quattro strade nasce da questo pensiero di Alice Rohrwacher: "È aprile. Non possiamo avvicinarci gli uni agli altri a causa di un virus. Ho pensato che posso avvicinarmi ai miei vicini di casa grazie al mio occhio magico, là dove il mio corpo non può". In sette minuti la regista racconta la sua quarantena, in mezzo a cani, piante e vicini con cui bisogna imparare ad andare d'accordo.

Abbiamo raggiunto la regista, che sta lavorando alla post-produzione del progetto collettivo Futura, documentario prodotto da Rai Cinema e Avventurosa su come gli adolescenti italiani vedono il futuro, realizzato insieme a Francesco Munzi e Pietro Marcello, via Zoom. Tra pellicola e digitale, sala e schermi del computer, per Rohrwacher la cosa più importante è affidarsi alla visione di un altro.

La video intervista ad Alice Rohrwacher

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Quattro strade: un film nato per caso

All'inizio del corto trovi una macchina con della pellicola: dici che non sai usarla, la pellicola è anche scaduta, ma ci hai provato lo stesso. In tanti hanno fatto questo durante la quarantena: c'è chi si è cimentato con il lievito e la pizza, anche se non sapeva da dove cominciare. Tu hai fatto un cortometraggio. Quanto è importante provare a creare anche quando le condizioni non sono proprio ottimali?

È stato un film involontario, nel senso che non è stato progettato, non volevo fare un cortometraggio né raccontare niente. Volevo proprio verificare il funzionamento di questa cinepresa e di questi rulletti di pellicola, che sono dei micro rulletti 16mm, 3 minuti l'uno, avevo circa 9 minuti in tutto. Li ho usati tutti, tranne 30 secondi. Questa è una tecnologia che abbiamo un po' accantonato, rimasta chiusa in un cassetto, che in teoria non dovrebbe funzionare e invece, dopo anni, senza bisogno di niente funziona benissimo. Tante volte accantoniamo delle cose dicendo che non sono più valide e invece chi l'ha detto? In realtà ho girato queste cose e poi mi sono proprio dimenticata, non era neanche possibile sviluppare così poco materiale.

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Quindi ho aspettato e solamente successivamente, molti mesi dopo, quando abbiamo ricominciato a lavorare, e quindi a usare il super 16, stavamo girando un progetto collettivo insieme a Francesco Munzi e Pietro Marcello, a quel punto ho messo nella famosa scatola che parte per lo sviluppo anche quelle bobine. Quando è arrivato il materiale è stato una bella sorpresa, perché era venuto. In qualche modo nella sua imperfezione secondo me raccontava qualcosa. Inaspettatamente nel rivederlo ho sentito che raccontava qualcosa. Quindi con Carlotta Cristiani, con cui stavamo montando anche un altro corto, Omelia contadina, lo abbiamo montato usando tutto il materiale disponibile. L'idea di montarlo e di farlo esistere come racconto, come diario, come piccola esperienza è successiva alla riprese. È una testimonianza che sì, è specifica di un luogo, ma secondo me racconta un'atmosfera in cui tutti ci siamo dovuti relazionare con il nostro orizzonte più prossimo. La nostra casa, i nostri vicini. Quindi in qualche modo un'esperienza comune nel suo essere unica come tutto.

Quattro strade e la natura di Alice Rohrwacher

Le meraviglie: la regista Alice Rohrwacher in una foto promozionale
Le meraviglie: la regista Alice Rohrwacher in una foto promozionale

Alla fine del corto parli di un albero che ha vissuto mille anni e che c'è riuscito forse perché è andato d'accordo con tutti i suoi vicini. La natura è sempre molto presente nei tuoi lavori: gli alberi possono davvero insegnarci qualcosa?

Avevo fatto un'intervista mesi fa, prima del lockdown, a Stefano Mancuso, che lavora all'università di Firenze. Parlando delle piante mi raccontava come le relazioni con le altre piante più prossime siano fondamentali per il loro sviluppo. Un albero ad esempio si trova a nascere in un luogo ed è necessariamente obbligato a sperare che tutti i suoi vicini siano in salute, che nessuno porti malattie, che nessuno gli impedisca di crescere. Quindi il benessere di tutto il suo vicinato è fondamentale per la sua vita. Durante il lockdown questo lo abbiamo visto anche tutti noi: siamo entrati in uno stato quasi vegetale. Non potevamo scappare dal pericolo, dovevamo stare nel pericolo e quindi sviluppare altri modi per affrontarlo, che sono propri dei vegetali, non degli animali. Gli animali scappano.

Un film è sempre un film, sia in sala che sul computer

Il corto andrà su MUBI. Pablo Larraín ha detto, durante una conferenza online, che prima pensava ai suoi film sempre con in mente il grande schermo. Oggi, dovendo fare opere che vanno in streaming e quindi in tv, si interroga su come questo influenzerà il suo modo di pensare alle scene. Se prima potevano durare 20 secondi, adesso invece si pone il problema. Tu ci stai pensando?

Non credo che ci sia tutta questa differenza. Credo di riuscire a fare sempre e solo il film che mi piacerebbe vedere, sia su un computer sia in un cinema. La differenza sostanziale è che la visione collettiva è più sorprendente di quella individuale. Come individui siamo limitati, mentre nell'insieme, nella collettività il nostro sé profondo viene amplificato. Sicuramente la visione di un film su un grande schermo in collettività è più forte nella nostra memoria. Anche solamente per tutto il rito: entrare in un posto al buio, sedersi accanto a degli sconosciuti. Non è solo la grandezza dello schermo, è proprio il fatto di staccarsi dalla propria vita quotidiana, entrare in un luogo deputato alla visione e affidarsi a quella visione. Non poter avere il controllo su quella visione. Quindi non poter andare avanti, indietro, stoppare, fare una pausa, parlare con altri. È questa la differenza, più che la dimensione: il fatto di non avere il controllo.

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Quindi io personalmente cerco di non avere il controllo neanche in un computer, cerco comunque di affidarmi alla visione. È più difficile perché c'è meno rispetto da parte di chi sta intorno: se qualcuno ti deve chiedere una cosa non è che si pone il problema se tu stai guardando un film, mentre in un cinema non ti verrebbero a chiedere dove sono le pentole. Il problema della visione di streaming non credo che sia come girare, è un problema relativo, perché il film è lo stesso film. Il problema è come tutelare quel rito che ti permette di darti a una visione e poi decidere se quella visione ti abbia fatto crescere, ti abbia fatto vedere con altri occhi. Quindi questo che vuol dire? Siccome la gente ha più difficoltà a staccarsi perché non ha il rito dobbiamo fare tutte cose più agitate? No. Dobbiamo insegnare alle persone che se vedono un film devono proprio staccarsi per quel tempo. Perché è una grande possibilità: non è che fanno un favore a noi, fanno un favore a se stessi. Facciamo un favore a noi stessi, non al regista o al produttore, quando ci stacchiamo dalla nostra individualità e ci affidiamo alla visione di un altro.