Quattro personaggi in cerca di autore
Un certo tipo di cinema agile, scanzonato e senza troppe pretese d'autorialità, come è nelle corde di buona parte cinema d'oltreoceano, rischia di soffrire e disunirsi proprio se tenta di affrontare in modo esasperato e al di sopra delle proprie possibilità le proprie storie. Ed è questo il caso dell'ultimo film di John Singleton, abituato da sempre ad un action movie piuttosto vivace e scanzonato (da Shaft a Rosewood, a L'università dell'odio, 2 fast 2 furious), che tenta la strada di un cinema interpretativo delle dinamiche umane, cercando di inserire il tutto in un contesto di pura azione, a lui familiare.
Il risultato è il pasticciato Four brothers, che si stiracchia senza infamia e senza lode per quasi due ore di inseguimenti degni dei precedenti lavori del regista e dialoghi che corrono in affannosa ricerca della "battuta giusta".
Un impianto narrativo di stampo shakespeariano (con tutti i dovuti distinguo del caso) viene mescolato con un montaggio serrato e una colonna sonora invasiva e incalzante che strizza l'occhiolino all'hip-hop e al rap di colore. L'amalgama, che ha un punto di sublimazione impercettibile, non riesce, e il film si muove macchinosamente alla ricerca di un'identità che non riesce a trovare. Si alternano così diversi registri di messa in scena, che fotografano le sequenze come momenti a sé, slegati in qualche modo da un'unità di intenti e di regia, fino a disperdere quel che di buono c'è nel film, in tanti rivoli.
Trade d'union del dipanarsi della trama (tra passaggi ottimamente costruiti e scene al limite del ridicolo) è Mark Wahlberg, favorito sicuramente dalla costruzione di un personaggio che pare il più credibile dello script, ma che, al di là di questo, si pone attorialmente come cardine vincolante dell'intera vicenda filmica. Il tenere insieme (un po' forzatamente) quattro fratelli adottivi, ognuno con una sua storia molto caratterizzata (uno dei momenti felici dello script ne è la presentazione, che avviene con pochi tratti, decisi ed esaurienti), non sarebbe riuscito senza una presenza sullo schermo come quella di Wahlberg, che si cala bene nella parte e imprime il suo mesto vigore a tutta la vicenda.
Tra ottime sequenze e paradossali incomprensioni, duole segnalare un finale che sembra voler essere consolante, ma che riporta ancor più il film, (se ce ne fosse bisogno)nei meandri del "cinema di cassetta".
Un passo in avanti di Singleton, sicuramente. Mezzo passo di lato traballando per lo spettatore (quello mediamente esigente; chi cerca un'oretta e un quarto di action comunque non priva di un suo filo logico, troverà quel che cerca).
Da vedere in poltrona, con qualche fido pop-corn.