È un film intimo e prezioso il primo lungometraggio di finzione di Jeremiah Zagar, realizzato a dieci anni di distanza dalla sua opera d'esordio, In a Dream, un documentario dedicato ai suoi genitori. E come approfondiremo nella nostra recensione di Quando eravamo fratelli, l'osservazione del microcosmo familiare è il principale trait d'union fra il debutto di Zagar e questo suo nuovo lavoro, presentato al Sundance Film Festival 2018 e accolto come uno dei prodotti più applauditi del cinema indipendente americano della scorsa annata. A costituire la fonte letteraria della pellicola è Noi, gli animali, libro di ispirazione autobiografica di Justin Torres, che Zagar adopera come punto di partenza per costruire un coming of age atipico e affascinante.
Noi, gli animali: Jonah e i suoi fratelli
Il teatro di Quando eravamo fratelli (in originale We the Animals) è costituito dalle campagne a nord dell'area metropolitana di New York: il suggestivo scenario di un'America rurale in cui si trovano a crescere i personaggi: il piccolo Jonah, interpretato da Evan Rosado, e i suoi fratelli maggiori, Joel e Manny. È quasi un mondo a parte, quello a cui appartiene l'infanzia di Jonah: una casa alle soglie di un bosco in cui i tre ragazzi vivono insieme ai propri genitori. Quei genitori che, nella prospettiva del figlio minore, assumono caratteri via via più complessi ed ambigui: il padre (Raul Castillo), un uomo dall'esuberanza contagiosa, scompare per lunghi periodi e cela forse un aspetto più 'oscuro' di quanto non appaia in superficie, mentre la madre (Sheila Vand) alterna affetto, depressione e rabbia in maniere che Jonah fa fatica a comprendere.
Accade così che, in assenza dei genitori, il bambino sia trascinato dai fratelli in violente scorribande e in avventurose corse in mezzo al bosco, mentre il suo confuso senso di consapevolezza viene continuamente messo alla prova. Il carattere irruento di Joel e Manny genera un contrasto stridente con quello più sensibile e riflessivo di Jonah, il quale trova rifugio nei propri disegni: disegni in cui le sagome stilizzate e i colori accesi diventano la modalità d'espressione di desideri e inquietudini che, altrimenti, resterebbero ingabbiati in una sostanziale afasia, nell'assenza di qualcuno disposto davvero ad ascoltarlo. Perché gli adulti, nel film di Jeremiah Zagar, sono figure tutt'altro che affidabili, di cui Jonah è in grado di percepire fragilità e debolezze.
Moonlight: fuori dal nero e dentro al blu
Il mondo secondo Jonah
E la macchina da presa si pone all'altezza del suo sguardo, ne sposa in tutto e per tutto il punto di vista, mescolando naturalismo e afflato lirico e trasfigurando la realtà circostante attraverso bagliori di oscura poesia. Il principale riferimento della fotografia di Zak Mulligan sembra essere il Terrence Malick dell'ultimo decennio (incluso l'utilizzo della camera a mano), eppure Quando eravamo fratelli si ferma prima di sconfinare nel manierismo, mantenendo un'autenticità che rimane uno dei suoi elementi più apprezzabili.
È un film che evoca, anziché sviluppare una narrazione organica, e che suggerisce invece di spiegare, e proprio in questo risiede il suo fascino: nella sottile istintività con cui Jonah impara a conoscere gli altri e se stesso; nel pudore silenzioso con cui percepisce un'attrazione per un ragazzo più grande; nell'amaro disincanto con cui, nella sequenza finale, recupera dall'immondizia i propri disegni... quel diario per immagini a cui ha affidato tutto se stesso.
Conclusioni
Il regista Jeremiah Zagar adotta una formula personalissima nell’elaborare il racconto di formazione del suo piccolo protagonista, firmando un’opera immersiva e avvolgente. Nella nostra recensione di Quando eravamo fratelli abbiamo evidenziato cosa rende questo piccolo film una visione a suo modo unica e speciale, che non ha bisogno di particolari sussulti narrativi per renderci partecipi dell’esperienza di Jonah, della sua quotidianità a volte turbolenta ma ammantata comunque di curiosità e di purezza.
Perché ci piace
- Lo stile originale ed immersivo della messa in scena di Jeremiah Zagar, sospesa fra realismo e flusso di coscienza.
- Le atmosfere evocative di un film che restituisce il senso di turbamento e di stupore tipico dell’infanzia.
- L’abilità nel far percepire le emozioni del piccolo Jonah senza mai risultare didascalico.
Cosa non va
- Una narrazione molto frammentaria e priva di un vero e proprio crescendo drammatico.