Quello di Joel Schumacher è un thriller teso e avvincente come pochi negli ultimi anni. Si potrà discutere sull'eccessiva fretta con cui s'introduce lo spettatore nella New York che corre veloce e quasi senza meta (ma è un accorgimento essenziale per garantire la stringatezza del film). Si potranno criticare le solite concessioni al cinema più commerciale e di cassetta. Resta il fatto che In linea con l'assassino è, in ogni caso, un film di efficacia sconvolgente e in cui il regista americano ama farsi beffe degli stereotipi del genere (il temibile cecchino che, scherzosamente, dice di essere un reduce del Vietnam per poi affermare, in modo altrettanto derisorio, di essere il solito psicopatico dall'infanzia traviata). Ma Schumacher gioca anche, e intelligentemente, con le solite citazioni da cinefilo navigato.
A partire dal ricorrente split-screen di derivazione depalmiana, che qui vuole è impiegato per moltiplicare la presunta civiltà dell'immagine, dove la comunicazione in sé è solo un mezzo per accrescere il gradimento sociale. E' difatti la maggiore quantità d'immagini a decretare il maggior successo di pubblico (le gemelle Lecciso insegnano...) e, insieme, ad ingrandire a dismisura la bugia globale della società mass-mediologica, in cui le persone non sanno veramente comunicare. Nella rapida segmentazione dello sguardo, Schumacher, difatti, tende ad evidenziare lo scollegamento tra ciò che si è e ciò che si vede. Con il trascorrere del tempo, il malcapitato pubblicitario (un ottimo Colin Farrell), vittima e, allo stesso tempo, carnefice della società moderna, subisce un progressivo tracollo dovuto alla sempre più imperfetta informazione che coinvolge i protagonisti del film (le prostitute che vedono una pistola che non c'è e la polizia, sempre più confusa, ma pronta ad agire ad ogni costo). E' il non vedere la fonte del pericolo a decretare la sconfitta per manifesta inferiorità di chi ha sempre vissuto grazie ad immagini vuote ed inutili, come appunto quelle della pubblicità. I centri gravitazionali di un mondo iper-tecnologico che ruota sempre più impazzito (come il satellite ripreso ad inizio e a conclusione di film), diventano così le due cose più scontate: un'anonima cabina telefonica e una finestra qualunque, non meglio identificabile. La macchina da presa s'innalza e s'abbassa ad intervalli, creando un gorgo dove grattacieli, insegne e una crescente folla di curiosi schiaffeggiano continuamente la privacy e la vanità dello sguardo.
Il plot, infine, sembra un'immensa variazione su alcuni classici hitchcockiani: La finestra sul cortile per il tema del voyeurismo, ma anche Gli uccelli per la scena della cabina telefonica con i vetri danneggiati. E Il classico doppio finale diventa perciò anche il doppio trionfo del pretesto moralistico (come per tutta la cinematografia del "maestro del brivido") di Schumacher. Comunque pur sempre di doppio finale beffardo si tratta, se pensiamo che, tutto sommato, le strade di New York, dopo lo show pubblico, sono tornate ad essere quelle di prima: frenetiche, chiassose e dove i corpi e le anime si separano sempre più. E, non a caso, gli unici che sin dall'inizio hanno cercato di remare controcorrente, sono proprio il cecchino "redentore" e il poliziotto problematico (mai ruolo fu più azzeccato per Forest Whitaker). Due reietti che, nel tentativo di "liberare" gli altri e se stessi nella mente, nello spirito e nel fisico, hanno quasi riscattato le loro sofferenti coscienze.