Recensione L'aria salata (2006)

La scrittura di Angelini è matura e riesce con efficacia a descrivere quello che si cela nelle fredde prigioni dell'odio e della solitudine.

Prigioni di rabbia

C'è un tema che si ripete più volte nei film in concorso a questa prima edizione della Festa del cinema di Roma e che anima da sempre il cinema più impegnato: il complesso rapporto tra padre e figlio, nella sua versione più estrema, con il sentimento di inadeguatezza che inficia l'assunzione dei ruoli, i drammatici punti di rottura che rivoluzionano i destini personali e l'inevitabilità della tragedia che fa riaccendere o concludere col punto i rapporti più burrascosi.
Anche il bel film italiano L'aria salata, di Alessandro Angelini, parla di una relazione bruciata all'origine, che si è esaurita nell'odio e nell'indifferenza. Padre e figlio, ancora eterni guerrieri che combattono per entrarsi dentro, e poi sputarsi fuori. Qui lo fanno con la rabbia tra i denti. Dopo il silenzio sfaldante di un passato troppo lungo si trovano ad affrontarsi a viso aperto e cuore socchiuso, in una gabbia senza vie di fuga, per un confronto in cui entrambi entrano da sconfitti, da esiliati cresciuti con buchi enormi nelle proprie storie. Si può ancora perdonare il mostro solo sulla base di un legame di sangue? Come si fanno a superare secoli di buio e di fame d'affetto?

Ne L'aria salata il padre si chiama Luigi, disconosciuto e abbandonato dalla famiglia perché autore di un brutale omicidio che lo ha condannato a trent'anni di prigione, e il figlio Fabio, rieducatore nel carcere di Rebibbia. I due non hanno più contatti da venti anni, dai tempi dell'arresto dell'uomo, condannato una seconda volta da moglie e figli che non gli hanno mai perdonato quell'atto efferato che ha distrutto per sempre la loro famiglia e quella della vittima. Un giorno Luigi viene trasferito dal carcere sardo, dove stava scontando la pena, a quello romano, dove lavora Fabio, per una pura fatalità. I due non si riconoscono, hanno scelto di dimenticarsi da tempo, ma Fabio scopre che il nuovo arrivato è in realtà quel padre che non lo ha mai cresciuto. L'odio covato per anni porta il ragazzo a trattarlo con disprezzo, ma il bisogno di lui sarà più forte e dentro spunterà il desiderio incontrollabile di concedergli una nuova occasione. Luigi, sconvolto da quell'incontro inaspettato, si trova così costretto a fare i conti con il passato e con il mondo che ha lasciato fuori, ma capisce che forse è troppo tardi per rimettere a posto le cose.

La scrittura di Angelini, e del suo compagno d'inchiostro Angelo Carboni, è già matura, perché riesce con efficacia a descrivere quello che si cela nelle fredde prigioni dell'odio e della solitudine. Le battaglie tra padre e figlio sono urlate, affrontate con fisicità rabbiosa, ma dietro ogni accusa si intravede sempre un disperato bisogno d'amore, di riconquistare l'altro. In ogni gesto e in ogni parola sputata c'è l'umanità dei personaggi. Le lacrime terrorizzate dell'uomo burbero di fronte alla vita che ha perduto sciolgono come acido la durezza del suo volto e del suo animo, i pensieri orticanti del ragazzo lo torturano e rimettono in discussione la chiusura definitiva verso il padre. Il regista punta la camera sui primi piani dei protagonisti, lasciando che le loro espressioni sottolineino la rabbia e il tormento delle parole, e il film si trasforma in un vero e proprio western familiare, entra nelle profondità dei personaggi per dare calore a questa frantumazione progressiva delle certezze e delle sovrastrutture che il tempo ha creato. La continua lotta tra i due sa essere feroce e toccante, e in più di un'occasione raggiunge una tensione drammatica che coinvolge e fa commuovere, anche grazie all'interpretazione dei due bravi protagonisti, Giorgio Pasotti e Giorgio Colangeli.

Il cinema italiano resta nel territorio ormai ampiamente saccheggiato dei legami familiari in rovina, ma sposta il campo di battaglia nell'insolita location di un carcere, con le sue sbarre fredde, gli spazi angusti e claustrofobici, i rumori sordi sempre uguali. Accanto ad un dramma familiare privato, Angelini inserisce nel sottotesto tracce desolanti dell'infame condizione dei detenuti e delle loro difficoltà di reinserimento nella società, per un'accusa forte e ben riuscita all'istituzione carceraria. E' una realtà che di solito si preferisce non mostrare, lasciata dietro le sbarre, nelle storie da ignorare di chi è stato giudicato colpevole e non ha più diritto a far sentire la propria voce in una società in cui se hai sbagliato sei finito. C'è però voglia di conoscere meglio ciò che allontaniamo, per comprendere fino in fondo cosa si cela dietro il lato oscuro dell'essere umano. Luigi non mostra mai segni di pentimento per quello che ha fatto, ma la sua esistenza è ormai distrutta e davanti non c'è più alcuna ipotesi di futuro. Dove e come può ricominciare la vita di chi ha commesso uno sbaglio? Forse le speranze non possono che morire a contatto con la cruda realtà, come suggerire il triste finale del film, forse la libertà sta solo in mare aperto.