Accolto con favore dal pubblico della Semaine de la Critique al Festival del cinema di Cannes, Daniele Vicari torna in Italia per presentare la sua seconda opera, L'orizzonte degli eventi, film prodotto dalla Fandango ed interpretato da Valerio Mastandrea e Lujlzim Zeqja.
Vicari, perché un titolo come L'orizzonte degli eventi? Daniele Vicari: Sono innamorato dei termini tecnici perché fortemente legati all'epoca in cui vengono coniati e rappresentano l'ideologia di quell'epoca. L'orizzonte degli eventi è un'espressione legata all'idea di un limite oltre il quale non si può andare e in questo caso è quel limite che il personaggio del mio film non può, o non deve, superare.
Nel suo film si parla di quei ragazzi che dall'Est Europa si trasferiscono sul Gran Sasso per fare i pastori, in condizioni miserabili, un aspetto che aveva già affrontato nel documentario Uomini e lupi. Quanto di quell'esperienza è stata trasferita nel suo nuovo lavoro? Daniele Vicari: La prima cosa di cui mi sono accorto quando ho realizzato Uomini e lupi è stata la distanza incolmabile tra me e i pastori macedoni. Ho chiesto loro cosa sognassero e l'imbarazzo che ne è seguito mi ha fatto capire questa cesura. Sono potuto entrare in contatto con loro solo parlando dei problemi del lavoro, delle difficoltà che incontrano ogni giorno, costretti a portare le bestie al pascolo sotto il sole, la pioggia, il vento. Dopo quest'esperienza ho scritto una storia, ma non funzionava. Ne ho parlato con Laura Paolucci e insieme abbiamo intrapreso un lavoro di ricerca grazie al quale abbiamo individuato il personaggio del fisico nucleare. Questo lavoro di approfondimento è diventato un vero e proprio metodo di scrittura quando è entrato nel progetto un terzo sceneggiatore, Antonio Leotti.
Uno dei temi del suo film è l'immigrazione. Siamo giunti a un punto in cui l'Italia è costretta a confrontarsi con questo problema? Daniele Vicari: Io sono figlio di emigranti che in gioventù sono dovuti andare in Svizzera per cercare lavoro e perciò il mio non è un concetto astratto. Sono cresciuto con i loro racconti sui lavori durissimi che erano costretti a fare. L'Italia ha circa 60 milioni di abitanti e all'estero ce ne sono altri 60 milioni. Il fatto che noi sia culturalmente che storicamente abbiamo rimosso questa esperienza sta determinando una distorsione nel modo in cui accogliamo queste persone nel nostro paese. La nostra società non si rende conto di questi problemi e lascia che i politici facciano leggi abominevoli come la Bossi-Fini. Abbiamo un approccio che ha a che vedere con il senso di colpa che è insostenibile. Mi auguro che si faccia più pressione alle istituzioni per risolvere questo problema. Ci sono fenomeni di schiavitù in tantissimi settori della nostra produzione, quando si sta fuori dalla regolamentazione si è in balia degli eventi. Se da noi un immigrato perde il lavoro viene subito espulso. Quando abbiamo scritto il personaggio di Max non abbiamo potuto evitare la sua relazione con questo problema.
Mastandrea e Zeqja, come vi siete preparati per il vostro ruolo?
Valerio Mastandrea: Sono partito dalla condizione umana del personaggio, tenendo però bene a mente la sua professione, perché oggi il lavoro ti condiziona inevitabilmente. Il film è un tuffo molto lento che il protagonista fa nel proprio io, in quella che è una personalità molto complessa, o meglio ancora compressa, sull'orlo di uno scoppio. Interpretare questo personaggio è stata per me una grande occasione perché mi ha dato la possibilità di fare l'attore e non capita molto spesso di affrontare ruoli del genere.
Lulzim Zeqja: Prima di girare sono stato in Abruzzo per una settimana. Sono rimasto lì con due pastori rumeni, imparando a mungere e a fare il formaggio, ho visto da vicino la vita del pastore, ma ho fatto anche un lavoro personale sul personaggio, scrivendone la storia, immaginando il percorso che ha fatto per arrivare in Italia, perché mi fosse più chiaro.
E lei, Vicari, come ha aiutato i due attori nella loro preparazione?
Daniele Vicari: Duranti i primi incontri col cast abbiamo fatto delle lunghissime chiacchierate sul film e sul suo significato. Penso che un attore debba sapere in che contesto si colloca, anche se non è sempre così. Volevo che tutti gli attori assorbissero i significati complessi che si celano nell'animo dei personaggi. Valerio per prepararsi al suo ruolo si è fatto intervistare come se fosse veramente Max, piano piano ha acquistato la consapevolezza di quale fosse lo spartiacque tra lui e il suo personaggio e alla fine parlava come lui. Luizim invece viene dalla scuola di Tirana che è molto interessante perché ha un metodo. Lui ha costruito la biografia del personaggio per sapere come muoversi.
C'è una scena fondamentale per il senso del film? Daniele Vicari: Rivedendo il film a Cannes mi sono reso conto che il dialogo più importante è quello tra Max e Bajram, quando quest'ultimo chiede all'altro cose semplici, gli fa domande sulla sua fidanzata e sul suo lavoro, ma Max non sa rispondere. E' il contraltare del dialogo tra Anais e Max, a quelle stesse domande semplice a cui il ragazzo non sa rispondere. Sono due scene che costituiscono uno spartiacque nell'esistenza di Max.
Cosa ne pensa della crisi del cinema italiano? Daniele Vicari: La situazione del nostro cinema è davvero grave. Produttori, sceneggiatori, registi, vivono un momento buio. Sarebbe il caso di interrogarsi sul perché non si dicono le cose come stanno. Le istituzioni pubbliche rinunciano ad una funzione propulsiva nei confronti della cultura. È una cosa gravissima. Si rischia di compromettere una tradizione culturale apprezzata in tutto il mondo. Chi governa, e chi sta elaborando programmi per andare al governo, ha una responsabilità altissima e noi che siamo gli addetti ai lavori non facciamo altro che aspettare alla finestra. Servirebbe una disciplina legislativa in grado di alimentare la produzione culturale.
Quali sono i suoi progetti futuri? Daniele Vicari: Sto tentando di realizzare un documentario sul declino economico, partendo dal Sud dell'Italia per arrivare fino in Slovenia, una pese da quale acquistiamo energia nucleare, ma anche forza lavoro.