L'animazione è un mezzo, non un genere. Lo diciamo, lo ripetiamo, lo sosteniamo. Ma l'animazione è anche un mondo fatto di anime e cuori pulsanti, di spinta creativa e di lavoro intenso, meticoloso, appassionato. È un mondo affascinante, vasto, accogliente, in cui capita di imbattersi in persone splendide, competenti, a fuoco sul loro lavoro come Matteo Burani e Arianna Gheller, regista e animatrice di Playing God che abbiamo intervistato in occasione della presentazione del loro corto, presentato durante la Settimana Internazionale della Critica di Venezia 81.
Una lunga chiacchierata in cui ci siamo fatti raccontare la genesi e lo sviluppo del loro interessante progetto, ma in cui abbiamo avuto modo di approfondire anche le difficoltà del loro lavoro e del fare animazione nel nostro paese. Abbiamo parlato di animazione, della tecnica e della stop motion che è il marchio di fabbrica dello Studio Croma. Abbiamo parlato di arte ed è sempre bellissimo poterlo fare.
Come nasce Playing God
Ma era doveroso partire dalla genesi di un progetto che ci aveva incuriositi, perché è evidente, guardando Playing God, la spinta autoriale di Matteo Burani e delle animazioni di Arianna Gheller, una pulsione creativa che in qualche modo va di pari passo con il tema del corto, che racconta la creazione, l'accettazione, la soggettività e il giudizio. "Playing God nasce su un mio taccuino durante una giornata di lavoro a Milano" ci ha spiegato Burani, che ha ricordato come la prima versione fosse una sorta di loop, un Build to Fall di cui si vedeva solo una porzione. "Mancava ancora tutta la componente psicologica dei personaggi e le dinamiche" ma il punto di partenza era quello.
Burani ricorda anche come tornato in studio ne avesse parlato con Arianna Gheller e come si fossero detti che ci sarebbero voluti tre mesi di lavoro per realizzare il corto e pubblicarlo. Era luglio 2017 e di tempo ne è passato di più, perché intanto si è lavorato molto scrivendo e riscrivendo la storia in seguito al percorso iniziato l'anno successivo nell'ambito degli eventi di settore, come l'Animart in Polonia: "lì abbiamo iniziato a ricevere le prime critiche, ci dicevano che era esteticamente molto bello, molto appagante, però mancava la storia."
Storia di un pupazzo
E la storia viene dall'esperienza personale di Matteo Burani proprio nel puppet making, nella creazione di pupazzi per l'animazione: "ci spendi così tanto tempo, tante energie, poi una volta fatto il lavoro li metti in una scatola" ed è finita lì. Un punto di partenza che si è evoluto "in un percorso umano ed emotivo" nel corso degli anni, in un confronto continuo tra gli autori anche in fase di produzione vera e propria. "Un confronto che mi ha divertito molto," ci ha detto Burani spiegando come la forma definitiva è arrivata solo nel 2022. Si è insomma partiti dal concetto di "rapporto tra creatore e creatura" per arrivare a qualcosa di più solido: il pupazzo creato nella sua perfezione, osteggiato dagli altri pupazzi emarginati per poi essere lui stesso accantonato. Una storia che evoca sensazioni forti, potenti, emotive. E solleva temi che lasciano spunti di riflessione.
La soggettività e il suo chaos
Il primo, il più importante e cercato da Matteo Burani, è quello che riguarda la soggettività e il caos che comporta. "Euesta questione della soggettività è parte fondamentale dell'ispirazione" ci ha detto Burani, "soprattutto per il ruolo del personaggio dello scultore che è puramente metaforico. Rappresenta un personaggio specifico, perché di fatto si tratta di uno scultore che crea un'opera, ma vuole essere più che altro metafora, perché ognuno può leggerci cose che sono legate al proprio vissuto personale." La soggettività, per l'appunto, anche nell'interpretazione: "personalmente ci ho sempre visto una sola strada, ma riflettendoci può dividersi in due possibilità e quelle a loro volta possono avere altre facce." E la sua visione è in qualche modo è un happy ending.
Una visione, quella di Burani e della Gheller, che si rispecchia nel mondo: "ci siamo sempre trovati di fronte al giudizio di qualcuno, di un'istituzione o di qualcuno che critica il tuo operato per vari motivi. Non dico che rappresenta un dolore, ma lascia questa sensazione di non riuscire a farsi capire del tutto. Ognuno è un universo e quello che sei va codificato attraverso le parole e non sempre si riesce a comunicare quello che si prova." Un tema che quindi lo Studio Croma sente suo, come conferma Arianna Gheller: "abbiamo sperimentato molti rigetti anche noi in quanto artisti ed è qualcosa che abbiamo voluto mettere nella storia, perché si ripercuote su tanti aspetti della vita."
Playing God, il suo team e l'esperienza veneziana
Aspetti che i due autori hanno discusso con tutto il loro team, perché Playing God è anche lavoro di gruppo: oltre Burani e la Gheller, che sono "in prima linea" come sottolineano, ci sono Gianmarco Valentina che figura come co-sceneggiatore, Guglielmo Trautvetter alla fotografia, parti di un nucleo che ha contribuito ai ragionamenti per perfezionare l'opera da quei primi rifiuti alla versione completa di nove minuti che viene presentata a Venezia, nell'ambito della Settimana della Critica.
Un'esperienza preziosa, come tutte quelle a cui il team di Studio Croma ha partecipato: "è un evento, conosci persone, vedi cortometraggi in sala, è un tipo di esperienza significativa dalle quali cerchiamo sempre di tirar fuori un pezzettino di qualcosa" ci ha detto Arianna Gheller. Ed è vero, ed è il motivo per cui la sala, l'evento, il festival, avranno sempre un'importanza particolare per loro, al di là delle maggiori potenzialità che lo streaming e le piattaforme possono dare oggi. C'è infatti più spazio per produzioni del tipo di Playing God, ma sono sufficientemente valorizzate?
Ruoli da riconoscere e l'animazione in Italia
Abbiamo parlato tanto di animazione in senso più ampio, percependo la passione per il media che Matteo Burani e Arianna Gheller provano, che sfocia in una inevitabile polemica che condividiamo: in Italia si è indietro, è indubbio, è un qualche che percepiamo noi che seguiamo il settore e talenti come Burani e Gheller che lo vivono: "in fase di iscrizione di un progetto a un festival" ci ha spiegato infatti Arianna Gheller, "mancano le voci corrette per segnalare i professionisti che hanno partecipato." Perché il modulo è standard e pensato per progetti realizzati in live action, con le voci relative. Ci sono quindi sceneggiatura, costumi e altri ruoli canonici del cinema, ma non l'animatore.
"Sono l'unica animatrice di Playing God" ci ha detto Arianna Gheller, "ma nel presentarsi ad alcuni festival devo figurare sotto altri ruoli" perché banalmente manca la voce "animatore". Un pizzico di speranza però c'è, perché con alcune organizzazioni è stato possibile interfacciarsi e intervenire, il che indica un'apertura, una predisposizione a capire e intervenire. Insomma si è indietro, è vero, ma i primi segnali di un'apertura ci sono e forse è anche grazie a professionisti e artisti bravi e capaci come Matteo Burani e Arianna Gheller, che lavorano con passione per portare avanti i loro progetti e contribuiscono alla crescita di un settore che ne ha bisogno.