Al netto di alcune sorprese (il colpo di scena finale per quanto riguarda la statuetta per il miglior attore protagonista), l'edizione degli Academy Awards conclusasi qualche ora fa è stata abbastanza prevedibile, e tra le categorie più prevedibili c'era quella del miglior film d'animazione, dove ha trionfato Soul di Pete Docter. Su venti edizioni di quel premio specifico, si tratta dell'undicesima vittoria della Pixar, un evento talmente ricorrente che per non spuntarla in quella categoria occorre quasi che lo studio fondato da John Lasseter non abbia film in gara quell'anno (aspetto su cui ritorneremo), e le vittorie davvero meritate ne risultano quasi inevitabilmente annacquate. È una questione che vogliamo approfondire in questa sede, facendo il punto della situazione su una categoria degli Oscar che da sempre è oggetto di controversie.
Questione di cifre
L'Oscar per il miglior film d'animazione è stato formalmente istituito nel 2001, valido quindi a partire dall'edizione 2002 degli Academy Awards. In precedenza, c'erano stati altri tentativi, tutti andati a rotoli perché il consenso generale tra le alte sfere dell'Academy era che sarebbe stata una competizione poco variegata, dato il sostanziale monopolio della Disney sul territorio nordamericano fino a qualche decennio fa. Il cambio di rotta c'è stato con l'ingresso o l'evoluzione di nuove realtà come la Pixar (all'epoca legata sì alla Disney ma solo tramite un accordo di distribuzione), la DreamWorks Animation e la Aardman, rendendo più variegato il campionario di film papabili (senza dimenticare un gigante internazionale come Studio Ghibli). Fin dall'inizio, però, sono stati imposti dei paletti, di cui uno ancora in vigore: qualora il numero di film eleggibili sia inferiore a sedici, la tradizionale cinquina sarà ridotta a un gruppo di tre titoli. Fino al 2019, inoltre, era previsto che il premio non venisse assegnato in anni in cui uscivano meno di otto film ammissibili.
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Siamo quindi arrivati a venti edizioni del premio, con undici vittorie targate Pixar, da Alla ricerca di Nemo a Soul. E nei nove anni in cui lo studio non ha vinto, sei erano dovuti al fatto che non ci fosse un titolo Pixar in gara, o per assenza di uscite in quell'anno (come accaduto nel 2002, nel 2005 e nel 2014) o per mancata nomination. Per l'esattezza, su venti film realizzati dalla Pixar da quando esiste la categoria del lungometraggio animato, solo cinque sono stati scartati già in sede di nomination: Cars 2, Monsters University, Il viaggio di Arlo (uscito però lo stesso anno di Inside Out, che ha vinto), Alla ricerca di Dory e Cars 3 (ma in quell'anno è uscito anche Coco , che ha ricevuto la statuetta). I tre casi rimanenti sono quelli di Monsters & Co., Cars - motori ruggenti e Gli Incredibili 2, battuti rispettivamente da Shrek, Happy Feet e Spider-Man: Un Nuovo Universo. E a voler essere davvero pignoli, si può anche menzionare che dal 2006 la Pixar appartiene interamente alla Disney, e fino al 2018 entrambi gli studios d'animazione erano gestiti da John Lasseter, il che rende indirettamente pixariani i trionfi di Frozen - Il regno di ghiaccio, Big Hero 6 e Zootropolis (guarda caso in anni in cui la Pixar vera e propria mancava all'appello).
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Il problema di chi vota
Una presenza così preponderante non è sorprendente a puro livello di candidature, data la mole di film prodotti dallo studio (seguono a ruota, per motivi simili, la DreamWorks e la Walt Disney Animation, rispettivamente con dodici e undici nomination) e la composizione del gruppo votante: salvo Miglior Film, le candidature per le singole categorie sono decise dai membri di quelle stesse categorie, e in quelle dell'animazione è inevitabile che chi è legato alle aziende in questione possa votare per se stesso o per i colleghi (ma da alcuni anni la possibilità di votare per le nomination in ambito animato è stata concessa a chiunque voglia partecipare, a prescindere dalla categoria di competenza). Il vero problema si manifesta quando bisogna scegliere il vincitore, ed è un problema che è da anni oggetto di scherno da parte di coloro che leggono gli articoli a tema dell'Hollywood Reporter. La celebre rivista di settore pubblica, infatti, ogni anno almeno un pezzo intitolato Brutally Honest Oscar Ballots, dove anonimi membri dell'Academy spiegano i motivi delle loro scelte prima della cerimonia.
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Al netto di alcuni momenti di onestà davvero encomiabili, come chi afferma di non aver votato in quelle che all'epoca erano le due categorie legate al sonoro perché non capiva esattamente cosa volessero dire (da quest'anno è categoria unica), ciò che emerge il più delle volte è una totale noncuranza nei confronti dell'animazione, bollata come perdita di tempo e categoria non degna di attenzione da parte degli adulti: quasi tutti gli intervistati ammettono candidamente di non aver visto tutti i film della categoria e/o di aver votato in base alle preferenze dei figli. A volte questa ammissione è accompagnata da neanche tanto velata xenofobia, come quando uno degli intervistati nel 2014 disse di aver allegramente saltato i "due film cinesi di cui non importa niente a nessuno", riferendosi presumibilmente ai due non americani in gara, ossia La canzone del mare (in lingua inglese ma di produzione irlandese) e La Storia della Principessa Splendente (film targato Ghibli, quindi giapponese).
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Cosa fare?
Recentemente, un articolo su questo tema a firma del giornalista americano Sam Adams (con il titolo molto schietto "Non dovete dare l'Oscar alla Pixar ogni anno") ha generato un po' di sana discussione su Twitter, con più di un collega che si è espresso sull'argomento proponendo che la categoria sia assegnata a un gruppo ristretto di membri votanti (forse addirittura i soli membri del settore animazione dell'Academy), i quali si impegnerebbero a guardare tutti i candidati e votare in base alle proprie considerazioni qualitative. Sarebbe una strategia ragionevole per restituire un senso a una categoria che, da circa quindici anni, ha portato alla concretizzazione del timore del monopolio di una singola casa di produzione. Intendiamoci, non c'è nulla di male a premiare opere notevoli come WALL·E o Toy Story 3 - La grande fuga. Ma quando la vittoria è praticamente automatica e, come evidenziato altrove in questo articolo, serve quasi una scusa per non votare Pixar, i trionfi davvero meritevoli ne escono diluiti, perché il sospetto che fossero le scelte di default, dettate da un pregiudizio nei confronti dell'animazione come medium, è difficile da ignorare. Perché guardare Wolfwalkers, ritenuto dai più uno dei migliori film del 2020, quando basta controllare se tra i candidati c'è almeno un Pixar? Ecco, sarebbe forse il caso di rivedere la procedura, per far sì che d'ora in poi una domanda simile non sia necessaria.
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