Recensione Un amore di gioventù (2011)

Con uno sguardo alla tradizione cinematografica giovanile che nell'indimenticabile Antoine Doinel ha una sorta di capostipite, la regista e sceneggiatrice Mia Hansen - Love ha tratteggiato il carattere dei suoi Camille e Sullivan, eternamente sospesi tra la normalità delle proprie vite e la consapevole follia di un rapporto senza speranza.

P.S. I love you

Secondo un ben noto luogo comune sembrerebbe impossibile scordare il primo amore, ma cosa potrebbe accadere se il pensiero di questo diventasse tanto ossessivo da condizionare gran parte della nostra vita? A mostrare gli effetti di una situazione così estrema è la quindicenne Camille che, completamente assorbita dalla passione per il diciannovenne Sullivan, non riesce a vivere il loro rapporto con serenità e leggerezza. Decisa a trasformare questo sentimento nell'unico cardine intorno al quale costruire un'intera vita, la ragazza si trasforma presto in un'amante soffocante e insoddisfatta destinata all'abbandono. Così, tra fughe momentanee e appassionati ritorni, i due vivono un'ultima intensa estate fatta d'intimità e promesse prima che Sullivan parta per il Sud America alla ricerca di un futuro non ben progettato. Rimasta a Parigi, a Camille non rimane che immergersi svogliatamente nella sua quotidianità in attesa di notizie, ma quando le lettere cominciano a farsi meno frequenti annunciando la fine inevitabile del loro rapporto, la ragazza si lascia andare a un'attesa silenziosa e inconsapevole lunga ben cinque anni.


Fatta eccezione per le ragazzine vivaci ma più innocenti de Il tempo delle mele, stupisce sempre come gli adolescenti francesi, almeno sul grande schermo, siano i protagonisti di una vita particolarmente adulta sia nei ritmi che nella gestione dei sentimenti. Assoluti padroni del proprio tempo, vivono la famiglia come un luogo di passaggio, un legame da ripudiare o un rifugio in cui nascondersi per esternare i propri drammi di fronte a genitori spesso accondiscendenti o, nel peggiore dei casi, costantemente assenti. Per loro il sesso non rappresenta un rito di passaggio ma la normale conseguenza di un rapporto di coppia, mentre l'amore sembra essere la sola ragione per cui valga la pena di vivere e morire. Così, con uno sguardo alla tradizione cinematografica giovanile che nell'indimenticabile Antoine Doinel ha una sorta di capostipite, la regista e sceneggiatrice Mia Hansen-Løve ha tratteggiato il carattere dei suoi Camille e Sullivan, eternamente sospesi tra la normalità delle proprie vite e la consapevole ossessione di un rapporto senza speranza. Nati da suggestioni giovanili e dal ricordo di un'emozione personale, i due ragazzi, però, non riescono a confrontarsi degnamente con chi li ha preceduti. A limitare notevolmente le loro possibilità è la costruzione di una vicenda tanto plausibile quanto priva di sentimento, in cui, fatta eccezione per gli incontri tra dei due amanti, la passione non trova nessuna possibilità di espressione.

In questo modo, il racconto evolutivo di un giovane personaggio femminile si trasforma in uno stanco e poco entusiasmante susseguirsi di eventi privi di particolari significati. Attraverso un arco temporale di cinque anni, la regista segue i passi di Camille, registrandoli con una precisione matematica ma anche con un certo distacco emotivo. Così, se il passare del tempo viene scandito dal susseguirsi delle stagioni o dall'abbandono dell'ambiente scolastico in favore di quello universitario, il percorso interiore della protagonista è riassunto fin troppo semplicemente in un nuovo taglio di capelli e nella perenne insoddisfazione dipinta sul volto imbronciato di Lola Créton. Il risultato, nonostante ci si trovi di fronte ad una vicenda almeno in apparenza in costante trasformazione, è una inaspettata immobilità che, unita allo stile minimalista già abbracciato da Mia Hansen-Løve nel più riuscito Il padre dei miei figli, non sembra rappresentare la scelta migliore per un racconto d'amore desideroso solo di esprimere liberamente tutte le proprie potenzialità. Nota soprattutto per il tocco leggero e per le sceneggiature essenziali quasi prive di dialoghi e colpi di scena, in questo caso la regista francese eccede nel trattenersi, nel non mostrare una reale appartenenza con la vicenda narrata, né un particolare legame affettivo con la sua Camille. Al contrario, impegnata in una costante razionalizzazione dei sentimenti, utilizza le strutture architettoniche non solo come scenografie in cui inserire i personaggi, ma come strumento scientifico per mettere ordine nella naturale confusione della vita, condannando così le sue creature e il pubblico a un'apatica indifferenza senza nessuna possibilità di ritorno.

Movieplayer.it

2.0/5