Orizzonti di morte
All'ovest niente di nuovo è un film di fondamentale importanza nella storia del cinema, e non solo per quello di guerra. L'impegno civile e l'amore per la Settima Arte trovano nella pellicola di Lewis Milestone un punto d'incontro difficilmente rintracciabile in opere successive, proprio per il particolare periodo storico in cui si colloca il film. Tratto dal romanzo di Enrich Maria Remarque (che insieme a Milestone, anche se su fronti opposti, combattè nella Grande Guerra), All'ovest niente di nuovo prosciuga la retorica del conflitto grazie ad immagini indelebili che, puntando tutto su un realismo psicologico crudo e spietato, sollecitano continuamente un antimilitarismo mai demagogico e sempre sferzante e demistificante ("Ma come fa una nazione ad offendere un'altra... Vuoi dire che una montagna della Germania si arrabbia con una montagna della Francia?" chiede sarcasticamente uno dei soldati).
Milestone narra la storia di guerra con gli occhi dei vinti (i tedeschi) e disegna gesti privi di eroismo ma non di enfasi drammatica. I soldati sono raffigurati come dei poveri sventurati che, volendo solo portarsi in salvo, sognano donne (assolutamente straniante è il rapporto amoroso tra Baumer e la ragazza francese, relegato nel fuori campo ed annullato da una ripresa sfocata dell'ambiente domestico), campi di grano, ciliegi in fiore e (con un afflato lirico che sembra quasi anticipare le visioni poetiche de La sottile linea rossa). Non ci meraviglia che nazisti e fascisti siano stati ostinati oppositori del film, perché in All'ovest niente di nuovo tutto è ridotto all'annullamento degli stereotipi patriottici. E ciò già a partire dal pomposo invito ad arruolarsi rivolto dal professore agli alunni, con una sequenza costruita grazie alla tecnica del "montaggio delle attrazioni" (Milestone era nato in Russia e ben conosceva le innovative tecniche di Sergei M. Eisenstein), proprio per far risaltare gli ampollosi propositi nazionalistici del vecchio insegnante e l'innocenza credulona e sognatrice dei giovani alunni (che saranno disillusi dal soldato Baumer con un'arringa enunciata direttamente con uno sguardo in macchina non privo di espliciti significati pacifisti). I movimenti della macchina da presa sono straordinariamente esuberanti, abbondando in lunghe carrellate (laterali in particolar modo) che, sul campo di battaglia, spingono lo spettatore direttamente nelle trincee (impensabile che Steven Spielberg, girando Salvate il soldato Ryan, non abbia considerato le trovate registiche di Milestone).
Non mancano momenti agghiaccianti, come nel caso del discorso di Baumer al soldato nemico ormai morto (indimenticabile lo sguardo vitreo e il ghigno beffardo disegnato sulle labbra di questi) o delle varie scene basate sul paio di stivali che passano di soldato in soldato, come una lugubre staffetta verso il traguardo della morte. Quello stesso traguardo che i soldati protagonisti del film tagliano definitivamente nel corso della "parata" conclusiva, sfilando sovrapposti al campo di battaglia ormai ridotto ad un ammasso di anonime croci (in una delle scene più belle e più commoventi dell'intera storia del cinema).
E il pensiero, volando come quella farfalla che Baumer non raggiungerà mai se non nei ricordi d'infanzia, torna stranamente ai titoli di testa, quando l'inno americano, leggermente deformato, fa la sua apparizione: una premonizione, un ammonimento o tutte due le cose? Fatto sta che all'ovest le cose torneranno ad essere tranquille solo quindici anni dopo l'uscita di questo film. Dopo che altre vite ed altre farfalle saranno volate via...