Il giovane Dani ha trascorso gran parte degli ultimi anni a prendersi cura del padre, gravemente malato, e ora che questi è deceduto per cause naturali sta cercando di riprendersi in mano la propria vita. Su consiglio dell'amata sorella Laura sta pensando di organizzare un lungo viaggio itinerante in Europa, tramite un biglietto che a prezzi scontati lo condurrà in varie capitali del vecchio continente. Ma come vi raccontiamo nella recensione di Non uccidere i suoi piani vengono sconvolti all'improvviso una sera, quando Dani fa la conoscenza in un locale della bella Mila. La ragazza gli si avvicina chiedendoli un prestito per pagare la cena, salvo poi proporgli di seguirla fino al luogo dove lavora, ossia un negozio di tatuaggi. Nonostante l'iniziale reticenza Dani decide di stare al gioco, affascinato dall'esuberante sensualità della sua nuova "amica", la quale però scoprirà ben presto che ha qualcosa da nascondere. E quella notte si trasformerà per lo sfortunato protagonista in un vero e proprio incubo, una notte dopo la quale niente sarà mai più come prima.
Gli occhi della notte
Il senso più profondo del film, la scena madre unica e primigenia, è in quel fotogramma finale, con lo sguardo rivolto in camera di un Mario Casas mai così intenso: una dichiarazione d'intenti nei confronti dello spettatore, come a chiedere di non essere giudicato o compatito ma bensì compreso, in quanto la situazione in cui si è ritrovato il suo alter-ego avrebbe potuto capitare, con le dovute proporzioni, a ognuno di noi. Con le dovute proporzioni ampiamente sottolineato, perché per quanto fino a metà visione lo schema narrativo regga e si riveli alquanto verosimile, soprattutto se applicato alle dinamiche di genere, nell'ultimo terzo perde un pochino di freschezza in favore di una grossa forzatura destinata a trascinare il tutto verso quel finale ad alta tensione, togliendo però parziale verosimiglianza al racconto stesso.
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Alta tensione
Racconto che carbura per gran parte in maniera coesa e pur con pochi dettagli riesce a costruire un background del protagonista abbastanza chiaro e preciso, che permette al pubblico di immedesimarvisi senza troppa fatica. Fino a quel passaggio chiave di metà visione, che scatena poi l'effettiva anima thriller del film e che innesca quel turbinio di paranoie e paura che viene efficacemente esaltato da una regia dinamica e schizzata, con la macchina da presa che si muove in maniera forsennata nelle furibonde fughe del Nostro. Il regista David Santori, autore di videoclip e al secondo lavoro per il grande schermo dopo l'horror inedito El pacto (2018), non molla il protagonista neanche per un attimo e già il prologo durante i titoli di testa, con la camera che segue in soggettiva in un piano sequenza Dani andare a comprare il tabacco per il genitore, salvo poi scoprirlo deceduto, è una dichiarazione d'intenti su quanto avrà luogo da lì a venire.
Eros e Thanatos
Non uccidere è permeato da una suspense non soltanto di genere ma anche da un erotismo strisciante che viene sprigionato da una Milena Smit irriconoscibile rispetto alla versione più casta vista in Madres paralelas (2021), girato l'anno successivo: Almodovar l'ha notata proprio in quest'occasione e l'ha scritturata dopo aver visto la sua performance. Non è un caso che sia lei che Mario Casas abbiano ricevuto la candidatura ai premi Goya, con il secondo che ha poi ottenuto anche l'ambita statuetta. Novanta minuti di visione che altro non sono che un viaggio all'inferno, dove un'anima innocente e inesperta della vita - sia nei rapporti umani che nel sapersi prendere le proprie libertà - si trova contro ogni previsione a infrangere il relativo comandamento del titolo, con interessanti spunti di riflessione sulla legittima difesa e su quanto la violenza possa generare ulteriore violenza. Un film aspro e secco, che proprio nella sua furia grezza e genuina trova il modo migliore per scardinare le difese di chi guarda, fino a quello sguardo di commiato che lascia volutamente col fiato sospeso e con un epilogo aperto a più suggestioni.
Conclusioni
Come vi abbiamo raccontato nella recensione di Non uccidere, il film vive soprattutto sull'intensa interpretazione di Mario Casas - e, pur con un minutaggio minore, della bella Milena Smit - e sulla regia assillante e frenetica che instilla un senso di paranoia sempre maggiore, crescente in maniera esponenziale dopo il colpo di scena di metà visione e che giustifica il relativo titolo. Novanta minuti che ci trascinano nell'inferno personale di un protagonista tanto sfortunato quanto ingenuo e poi fuori controllo, fino a quello sguardo in camera che pone il sipario su una storia che si presta, nella sua essenza sfacciatamente di genere, a riflessioni di sorta più profonde della media.
Perché ci piace
- Un magnifico Mario Casas, supportato da un'altrettanto brava e sensuale Milena Smit.
- Una regia che ben restituisce il senso di assillante e crescente paranoia
Cosa non va
- Nell'ultima parte una forzatura toglie parziale verosimiglianza alla storia.