Ci sono film che sembrano non invecchiare di un giorno. Appartengono a una dimensione quasi mitologica e, di conseguenza, senza tempo. Spesso questi film fanno parte di lunghe liste in cui vengono elencati i grandi capolavori della settima arte, pellicole d'autore che molti conoscono e che, solitamente, non appartengono a un vero e proprio genere. Eppure, un piccolo film a bassissimo budget che ha sconvolto per la prima volta il pubblico nel 1974 meriterebbe di appartenere a una di queste liste. Si tratta di un film dell'orrore unico nel suo genere, che non avrebbe bisogno di presentazioni. Non aprite quella porta per anni, sia nel periodo dell'originale che nei primi anni Duemila con il remake a firma Marcus Nispel, è stato sinonimo di terrore e paura. Per anni la sua nomea di film più terrificante di sempre, di pellicola brutale e iperviolenta, ha spaventato e affascinato generazioni di spettatori. Con l'arrivo del sequel canonico (anche se già ce n'era uno, realizzato dallo stesso Tobe Hooper negli anni Ottanta), la leggenda di Leatherface, Faccia di Cuoio, è ritornata a permeare i nostri schermi, facendo risuonare un suono da brividi: quello della motosega. È l'occasione perfetta per ritornare nel passato e riscoprire il classico del 1974, un film unico nel suo genere, che ha sì creato un'icona dell'horror, ma l'ha anche resa irreplicabile. Ecco perché il Non aprite quella porta del 1974 di Tobe Hooper rimane un capolavoro intramontabile.
Un inizio folgorante
Quanto è importante l'inizio di un film? Nel caso di Non aprite quella porta, tantissimo. In poche inquadrature e dosate scelte di scrittura e di regia, Tobe Hooper catapulta lo spettatore nell'afoso Texas, preannunciando l'orrore che saremo costretti a osservare. Una didascalia a scorrimento è solo il primo tassello di una costruzione orrorifica che verrà messa in atto nel corso del primo atto. L'obiettivo di Hooper, infatti, non è tanto quello di mostrare esplicitamente il malsano, quanto mettere lo spettatore nella condizione di credere fortemente a ciò che sta guardando. Così una storia di finzione (seppur basata sul serial killer Ed Gein) assume i contorni di un resoconto di un fatto di cronaca, svelando sin da subito la costruzione cinematografica ("Il film che state per vedere"). Il pubblico è subito portato ad accettare con una forte dose di realismo le immagini e il racconto. Elemento che sarà evidenziato sia grazie all'utilizzo della camera a mano (quasi un obbligo dato il basso budget, ma che unito alla pellicola in 16mm dona al film un look sporco e grezzo di sicura suggestione) che alle primissime immagini che vedremo, alla fine del testo a scorrimento. Lo schermo nero, in cui sentiamo rumori indefinibili, verrà interrotto da brevi flash, di una macchina fotografica, che cattureranno dettagli scabrosi e macabri. Unghie, ossa, denti e salme, una dimensione mortifera che si esprimerà totalmente con il primo piano di un cadavere putrefatto, posto sopra una tomba, illuminato da un sole color arancio. Seguiranno i titoli di testa, in sovrimpressione su immagini che amplificheranno un senso di indefinitezza e disagio, per poi dare avvio al film con un'altra inquadratura di morte: quella di un armadillo sull'asfalto. Sono passati pochissimi minuti di un film breve (nemmeno 90 minuti) e già l'atmosfera di morte pervade il film, travalica i confini dello schermo e si appiccica all'epidermide dello spettatore, come il caldo afoso che i protagonisti dovranno sopportare.
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La calda atmosfera della violenta normalità
Ci sono due aspetti che i successivi sequel, remake, prequel e reboot della saga del Texas Chainsaw Massacre non sono riusciti a replicare rispetto all'originale, che formano anche il motivo per cui il film di Tobe Hooper riesce a vincere il passaggio del tempo. Il primo è l'atmosfera che permea l'intero film. Il caldo agosto texano rende pesante il respiro, lo stile di regia amplifica il sentimento opprimente del viaggio da parte dei cinque protagonisti, il nervosismo crescente tra loro e i personaggi del posto stranianti contribuiscono a creare una crescente tensione che sfocerà nel secondo atto. Il film riesce a catturare lo spettatore e fargli provare l'esperienza di quel luogo di perdizione, sino ad arrivare alla casa della famiglia Sawyer, dove il personaggio di culto farà la sua prima comparsa. Proprio la rappresentazione di Leatherface in questo film rende Non aprite quella porta più terrificante del previsto. A differenza delle incarnazioni successive, dove il nostro assomiglia sempre di più alle altre icone dell'horror come Jason Voorhees (Venerdì 13) o Michael Myers (Halloween - La notte delle streghe), qui Leatherface è un uomo rimasto bambino, con problemi mentali, incapace di parlare, e cresciuto attraverso un'educazione famigliare che lo spinge a chiudersi e reagire senza controllo. Di vitale importanza nella costruzione del personaggio una breve scena che lo vede preoccupato e spaesato, dopo aver ucciso l'ennesimo ragazzo. In questo piccolo barlume di panico, Leatherface acquista una dimensione umana, quasi empatica. Ed è proprio questa scena che lo rende ancora più terrificante. La famiglia Sawyer non è il tipico "mostro" soprannaturale degli slasher, che segue il richiamo del sangue e appartiene al mondo delle tenebre. Opera, invece, alla luce del sole (quello di Hooper è uno dei pochi horror in cui l'oscurità non contribuisce a creare tensione e paura), appartiene al mondo comune e reale (e non a caso, il film sottolinea il malcontento verso il prezzo del petrolio e l'economia). Il titolo italiano del film sembra quindi quasi profetico, perché è entrando in casa d'altri che li si può conoscere davvero.
Urla e isteria
Il terzo atto del film è forse il motivo per cui Non aprite quella porta è entrato negli annali cinematografici. In una scena celeberrima, quella della cena in famiglia, si compie tutta la follia, fuori e dentro lo schermo del film. È una scena isterica, dove risate e urla si confondono, dove l'assenza di ragione prende il sopravvento e il tutto assume contorni più viscerali ed emotivi. Il montaggio, che indugia, tra le altre cose, sul dettaglio dell'iride di Sally, amplifica ulteriormente il disagio e l'isteria. Che è avvenuta davvero sul set. L'attore che interpretava il nonno semi-mummificato non aveva intenzione di replicare le lunghe ore di make-up, costringendo la troupe agli straordinari per concludere la lunga scena. La fattoria nella quale si svolgevano le riprese sotto un caldo asfissiante era coperta da teli impermeabili (necessari per dare l'impressione che fosse notte nel film) che non lasciavano trasparire l'aria. Il set era cosparso di vere ossa e vero sangue animale. I vestiti degli attori, a causa del budget risicato, erano unici e gli interpreti sono stati costretti a tenerli addosso per tutta la durata delle riprese del film, inzuppandosi continuamente di sporco, sangue e sudore rappreso, impestando l'aria di odore puzzolente. Il disagio e l'insanità del momento che coinvolse gli attori si percepisce guardando con attenzione la scena (e il tutto è raccontato nei libri e nei documentari). La scena diventa la messa in scena anarchica e d'impatto della follia, lasciando lo spettatore in balia di una cacofonia terrificante che non ha precedenti. Il finale, la celebre danza di Leatherface con la motosega (che quasi prende l'operatore - anche questo si vede nel film in cui la macchina da presa si allontana di colpo -), interrotto improvvisamente dai titoli di coda, è l'ultimo elemento che lascia lo spettatore attonito e scosso. Si potrebbe discutere sulla maniera in cui il film è stato realizzato, ma è proprio in questa visceralità espressiva che Non aprite quella porta risulta diverso dalla maggior parte degli horror. Mettendoci di fronte all'isteria e all'assenza di controllo, il film di Tobe Hooper non ha bisogno di sangue (che, al contrario di quel che si crede nell'immaginario collettivo, è praticamente assente) per sconvolgere e shockare. Basta mostrare una possibilità del reale, esagerandone gli aspetti - da questa considerazione realizzerà l'incompreso sequel Non aprite quella porta 2 del 1986, quasi un'autoparodia dell'originale -, costruendo un'esperienza che mette a dura prova i nervi del pubblico. Ecco il grande cinema dell'orrore, che come l'afa e il sudore permane sui vestiti, che come le urla e i rumori rimbomba ancora nelle orecchie.