"Free Zone avrebbe potuto essere il titolo di un film di fantascienza", osserva Vito Zagarrio durante la conferenza stampa dell'ultimo film di Amos Gitai; "si tratta di un road movie, un genere tipicamente americano: in cui due o più personaggi in auto attraversano un deserto, cercando la Free Zone, che potrebbe essere la Zona Aliena dove trovare ed accettare l'altro..."
Abbiamo incontrato il regista Amos Gitai a Roma, nella zona franca di un teatro dove l'autore israeliano si trovava per presentare la sua ultima opera che entrerà nelle sale italiane il 12 maggio, distribuita dall'Istituito Luce. Free Zone parla di questioni sin troppo tangibili, di realtà, di conflitti, di esseri umani e di contraddizioni umane, mostrando come si possa fare del cinema spettacolare senza spettacolarità, sostando per nove minuti sul volto di un essere umano. Accanto a lui, non a caso, due donne, due giornaliste: Monica Maggioni e Luciana Castellina.
Amos Gitai, cosa le premeva di più raccontare con questo film, la storia delle tre donne protagoniste o la Free Zone, uno spazio assolutamente ignoto in Occidente? Amos Gitai: Ciò che mi interessava era scoprire e vedere come col cinema sia possibile tentare di seguire un percorso inverso nel confine segnato da ciò che è fisico e ciò che è mentale. Mi premeva indagare come, malgrado tutto, si possano creare dei legami tra esseri umani, come si possa accettare l'altro anche quando l'altro è apparentemente un nemico. Volevo parlare dell'attualità che una parte del mondo vive, uscendo dai canoni adottati dai Telegiornali che ogni giorno all'ora di cena entrano nelle case di ogni continente, uscendo dalle immagini che mostrano solitamente le televisioni, immagini che servono lo spettacolo della politica. Volevo la sostanza. Free Zone si ispira ad un fatto che mi è stato raccontato da un mio amico, col quale ho poi intrapreso il viaggio che conduce nella Free Zone che si trova ad est della Giordania, tra l'Irak, l'Egitto, la Siria ed Israele. Il mio amico e connazionale Opher è una persona tradizionalista e conservatrice ma molto generosa, molto diversa da me; mi raccontò che, rimasto disoccupato ad un certo punto della sua vita, cercò un socio in Giordania per vendere auto blindate nella Free Zone. Non riuscivo a credere ad una tale cooperazione tra un israeliano ed un giordano, ero pronto a credere si trattasse di fantascienza, e per questo ho voluto compiere con lui questo viaggio che passando da Tel Aviv ed Amman porta alla Free Zone. In Giordania ho conosciuto il suo socio ed al mio ritorno, durante la scrittura della sceneggiatura, i personaggi sono stati tradotti al femminile, Opher si è trasformato nel personaggio di Hanna (Hana Laszlo, Palma d'Oro al Festival di Cannes), il suo socio in quello di Leila (Hiam Abbass), ed io... io sono diventato Rebecca, Natalie Portman!
Monica Maggioni, lei che conosce profondamente la realtà narrata in Free Zone da Gitai, può spiegarci quali sono le storie di tali aree, le storie che generalmente non vengono narrate dai telegiornali? Monica Maggioni: Questo film mi ha molto emozionata. È stato un vero tour emotivo per me, nelle zone grigie che non entrano nei telegiornali e che noi giornalisti, invece, viviamo e scandagliamo spesso. In queste zone di scambio si riesce ad andare oltre ciò che è totalmente bianco o totalmente nero. Questo manicheismo di cui siamo intrisi è in realtà un bisogno degli altri, il bisogno di dover sapere e poter dire chi è buono e chi è cattivo, il bisogno di sapere da che parte stare. Le Free Zone sono invece luoghi in cui buono e cattivo si mescolano, si confondono, si perdono e perdono di importanza per ritrovare una dimensione umana, per restituire una dimensione umana all'umanità. Non a caso, secondo me, Gitai ha sentito la necessità di fare un film di donne; le zone di cui stiamo parlando sono effettivamente luoghi molto femminili: concreti, pratici, dove si supera ogni suddivisione, dove tutto convive, nella mescolanza. Il motivo per cui questi non luoghi restano nell'ombra e non vengono raccontati nei telegiornali è solo una: è meno rassicurante dare sfumature alle cose.
Luciana Castellina, a suo avviso questo film ha a che fare con il ruolo che hanno le donne nella ricerca e nella conquista della pace? Luciana Castellina: Per rispondere a questa domanda voglio citare la storia di una donna, la madre stessa di Amos Gitai. Fu una pioniera socialista in Israele, dove era approdata da Vienna con la speranza di costruire un mondo giusto e socialista, come molti giovani che anelavano a costruire un mondo giusto e socialista e che una volta giunti in quella terra si scontravano con l'altro. Quando mi narrò la sua storia la madre di Amos Gitai era ancora convinta che si potesse costruire quel mondo per cui lei, negli anni '20 del 900, aveva lasciato l'Europa...
La Free Zone rappresenta quel momento di speranza: è un momento di speranza dove, attraverso il commercio ed i soldi, ciò che conta è che si riesce ad istituire un rapporto tra esseri umani. Ciò che mi chiedo è se al punto in cui siamo giunti oggi possano ancora esistere queste zone, delle zone franche. Esistono ancora le Free Zone o siamo ormai in un momento così drammatico che non è più possibile neppure il commercio in quei luoghi? Esistono ancora davvero le Free Zone o sono sempre meno?
Gitai, le tre donne protagoniste del film rappresentano ognuna un modo di approccio differente alla questione israelo-palestinese dal punto di vista politico, o è solo un caso che sia un'americana - che poi fuggirà - a cercare di capire l'israeliana prima e la palestinese poi cercando di farle cooperare? Amos Gitai: Certamente le tre figure rappresentano le tre forze e le tre verità in campo nella storia politica della questione israelo-palestinese. Così come è certamente vero che noi popoli protagonisti di questo conflitto non possiamo e non dobbiamo gettare tutte le colpe dell'immagini che il mondo ha di noi sulla televisione: quello che il mondo ha davanti agli occhi sono immagini intossicate. Noi, israeliani e palestinesi, abbiamo contribuito a che queste immagini intossicate di noi stessi si siano sparse per il mondo. Bisogna cercare e trovare nuove forme di coesistenza o è inevitabile che ad un certo momento resteremo soli a discutere del nostro conflitto mentre il resto del mondo, di noi stanco, in noi sfiduciato, andrà via. Le donne di cui parlo nel mio film compiono un passo avanti nella Storia: dialogano senza uccidere. Sono convinto che si possa essere in disaccordo, che si abbia il diritto di essere in disaccordo tra palestinesi ed israeliani, ma non per questo si può o si deve uccidere. I miei film sono dettagli, sono piccole cose: sono un architetto e come tale amo le piccole cose che sono poi metafora di quelle grandi, come il mio cinema.
Il film si apre con un lungo piano sequenza di nove minuti, tutti spesi sul volto di Natalie Portman, con una canzone popolare a fare più che da colonna sonora direi da protagonista della scena. Cosa può dirci, Amos, di questa canzone, del suo significato e del perché di questo incipit? Amos Gitai: L'agnello è un testo ebraico tradizionale, cantato la sera di Pasqua. Quello che ho usato io in Free Zone è un testo che, nella sua parte finale, è stato modificato dalla cantante che ha voluto aggiungere una sua nota al canto tradizionale, per offrire una interpretazione più ampia, metaforica, del suo significato. La scena iniziale è stata girata in un giorno malinconico, con un cielo simile a quello che oggi ingrigisce Roma, e siamo riusciti proprio a cogliere quella malinconia, che era quella che cercavamo, in modo molto semplice: abbiamo creato qualcosa di molto bello con qualcosa di molto semplice, con un volto umano che offriva un ventaglio di emozioni enorme, che riusciva a parlare del personale dolore della protagonista e anche di un dolore più ampio. Il New York Times ha affermato che ciò che la Portman ha fatto nei dieci minuti iniziali di Free Zone non l'ha mai fatto in ore ed ore di Guerre Stellari: Natalie non ne è stata molto contenta, ma io credo sia vero e anche giusto... la responsabilità di questi dieci minuti era differente.