Recensione Il nemico del mio nemico - Cia, nazisti e guerra fredda (2007)

Il lavoro di Kevin Macdonald acquista spessore allorché il regista si pone sulle tracce del criminale nazista Klaus Barbie, il famigerato "macellaio di Lione", rivelando i retroscena più torbidi della sua fuga in Sudamerica.

Nazismo da esportazione

Di fronte a un documentario come Il nemico del mio nemico - Cia, nazisti e guerra fredda è difficile restare indifferenti. Le vicende ricostruite nel film e il genere di testimonianze raccolte sono tali da far rabbrividire quel pubblico più sensibile a determinati argomenti, per quanto certi fatti siano di pubblico dominio ormai da anni. Ma non sono in tanti a voler pubblicizzare ulteriormente lo scabroso operato delle democrazie occidentali alla fine della Seconda Guerra Mondiale, perciò lode al britannico Kevin Macdonald, cineasta che si è districato finora (non sempre con la stessa abilità) tra esperienze da documentarista e prodotti di fiction. Nel secondo filone si inserisce, ad esempio, il controverso e irrisolto L'ultimo re di Scozia, realizzato nel 2006 traendo ispirazione dalle nefande azioni del dittatore ugandese Idi Amin. Restando in tema di nefandezze, resta ora da scoprire l'identità del personaggio, alla cui movimentata esistenza Macdonald ha dedicato il suo più recente documentario: Klaus Barbie, noto anche come "il macellaio di Lione". Nella Francia di Vichy il sadico e fanatico ufficiale nazista si macchiò di colpe gravissime, tra cui la deportazione nei campi di sterminio di 44 bambini ebrei da lui scoperti nel villaggio di Izieu, l'uso sistematico di sevizie durante gli interrogatori dei partigiani, fino all'eliminazione dello stesso Jean Moulin, capo carismatico della Resistenza Francese, avvenuta per le torture inflittegli dagli aguzzini della Gestapo.

Ma perché un titolo come My Enemy's Enemy? Come si suol dire "Il nemico del mio nemico è mio amico", il che può prestarsi ironicamente (ed è un'ironia tragica) a commentare la seconda parte del documentario. Macdonald è infatti fin troppo sbrigativo, scolastico, nel liquidare i crimini commessi da Klaus Barbie quando vestiva un'uniforme nazista. Quasi fosse un atto dovuto. Ma il suo lavoro acquista spessore allorché il regista si pone sulle tracce del personaggio, rivelando i retroscena più torbidi della sua fuga in Sudamerica. Già, perché quando all'euforia post-bellica cominciò a sostituirsi il clima della Guerra Fredda, esponenti di potenze come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna si convinsero che fosse opportuno non solo graziare, ma persino reclutare alcuni di quei criminali di guerra tedeschi, da cui ci si aspettava qualche indicazione utile per combattere un nemico comune: il pericolo comunista, allora incarnato dall'Unione Sovietica. Nella logica della Guerra Fredda accadde così che boia riconosciuti come Josef Mengele e Klaus Barbie sparissero dalle liste dei criminali di guerra compilate a Norimberga, per ricomparire invece in qualche località latino-americana, magari in condizioni di relativa agiatezza e sotto la protezione del dittatore di turno. Fughe rocambolesche come quella di Barbie, che trovò asilo sotto falso nome in Bolivia, avvennero con la benedizione della CIA, di altri servizi segreti occidentali e di parte del clero cattolico.

Al di là delle scandalose implicazioni etiche, oggetto di un avvilente percorso di rimozione nella società occidentale, la presenza di tali soggetti in paesi come la Bolivia, il Paraguay, il Brasile, l'Argentina e il Cile è tornata spesso a essere attiva, nel senso che alcuni di loro vennero utilizzati quali consiglieri militari e ideologici, al momento di reprimere ogni movimento o insurrezione popolare che esibisse caratteri socialisti; nel caso di Klaus Barbie la ricerca di Macdonald pone in risalto scenari davvero inquietanti, dall'aiuto offerto al corrotto governo di La Paz durante la caccia a Che Guevara e ai suoi guerriglieri, per arrivare al grottesco sogno di ricreare un Quarto Reich sulle Ande, progetto perseguito appoggiando un gruppo di militari golpisti boliviani. In questa complessa e articolata genealogia del Male, le conclusioni amare e pessimiste del cineasta britannico non vengono meno neppure quando si arriva all'ultimo atto; Barbie, individuato anni prima da quei cacciatori di criminali nazisti già sulle tracce di personaggi come Mengele e Eichmann, riuscì a evitate l'estradizione per lungo tempo, grazie alle sue potenti amicizie; soltanto nel 1983 poté essere condotto in Francia e lì processato, per poi morire in carcere nella stessa Lione dove aveva commesso i più atroci crimini contro l'umanità. Ma non vi è alcuna vera catarsi, per lo spettatore, durante questo percorso conoscitivo: soltanto la consapevolezza dello spaventoso cinismo imperante nella politica internazione, nonché una ricognizione degli istinti più bassi e feroci che risiedono in personaggi come Klaus Barbie, mostro sadico e opportunista. In questa fosca parabola finiscono per rispecchiarsi altre storie, non meno significative; dalle sofferte testimonianze delle sue vittime all'intervista, persino più sconcertante, in cui la figlia del "macellaio di Lione" ne difende l'operato con tono di voce distaccato e freddo, arrivando persino a ironizzare sul soprannome dato al padre. Ed ecco, così, il testimone dell'abominio nazista che passa virtualmente di mano in mano, da una generazione all'altra.

Come ebbe a dire Bertolt Brecht: "Non rallegratevi della sua sconfitta, voi uomini; benché il mondo abbia resistito e abbia fermato il bastardo la rabbia che lo ha generato è ancora feconda".