Sergey è un giovane adolescente sordo del cui passato non sappiamo nulla. Il regista ci introduce nella sua vita dal giorno dell'arrivo al collegio specializzato dove vivono e studiano ragazzi e ragazze con la sua medesima problematica. Qui si scontra immediatamente con la cruda realtà che caratterizza l'istituito. Per sopravvivere deve ritagliarsi un proprio spazio all'interno della tribù, capitanata da quattro coetanei che controllano a proprio piacimento le dinamiche dell'istituto, tra violenze, rapine e prostituzione. Questa routine criminale subisce una brusca battuta d'arresto quando Sergey s'innamora di Anna, una delle ragazze costrette a vendersi dai compagni, per la quale va contro ogni regola non scritta del branco.
Pesce grande mangia pesce piccolo
The Tribe è una storia di sopravvivenza. Il racconto doloroso e spietato della vita di un gruppo di ragazzi sordi che cerca di non farsi risucchiare dal vuoto che li circonda. Per farlo utilizzano la violenza, feroce e cieca, fatta di soprusi e vessazioni verso chi è più debole di loro. Una sorta di vendetta verso quella vita che li ha relegati ai confini di una società e di un sistema istituzionale che non si cura di loro e che riversano nei confronti di ragazzi più piccoli o semplicemente meno violenti. Sergey decide di non opporsi a queste dinamiche, diventando anche lui carnefice per non farsi vittima. Nella tribù esegue gli ordini e lentamente ottiene la fiducia dei compagni che li affidano compiti e responsabilità, vivendo una routine criminale con distacco e freddezza.
Il regista ucraino racconta una storia di formazione estrema, rappresentata dalla ribellione di Sergey nata dall'amore, portata ai limiti e raccontata con una brutale crudezza che non permette allo spettatore di vivere la visione con distacco, bensì lo costringe, anche in virtù della narrazione fatta di gesti, ad osservare e partecipare, a vivere il film. Per farlo utilizza uno stile di regia che alterna piani sequenza, macchina a mano e immagini fisse, grazie alla quale la partecipazione emotiva viene amplificata dalla vicinanza ai giovani protagonisti seguiti nel loro agire e da una scenografia molto scarna, con gli interni girati negli ambienti fatiscenti e poveri del collegio e gli esterni ripresi tra costruzioni abbandonate ricoperte di murales dai colori sgargianti che stridono armoniosamente con il grigio metallico e brillante della fotografia di Valentyn Vasyanovych.
The sound of silence: un omaggio dalla doppia valenza
Il regista ucraino Myroslav Slaboshpytskkiy, qui al suo primo lungometraggio, aveva già anticipato il suo interesse nel portare sul grande schermo una storia che non prevedesse dialoghi o suoni nel suo corto del 2010 intitolato Deafness, lavoro anticipatore e preparatorio che ha traghettato il cineasta verso questa sua prima potente pellicola con la quale ha vinto il Gran Premio della Semaine de la critique alla 67ª edizione del Festival di Cannes e una quantità notevole di altri premi a livello internazionale. Nessun dialogo, nessuna musica, nessuna voce over, The Tribe è interamente realizzato nella lingua dei segni da veri adolescenti sordi alla prima esperienza davanti la macchina da presa. Per due ore lo spettatore è rapito dalla danza dei corpi di questi giovani interpreti che, paradossalmente, catalizzano tutta l'attenzione su di loro partendo da una mancanza e ricordano, nella sinuosità dei loro gesti, concitati, amorevoli o aggressivi, le coreografiche movenze dei personaggi di West Side Story o, ancora, nelle scene si violenza e di combattimento, una versione aspra e brutale degli sketches di Buster Keaton.
Gli unici suoni sono dati dai rumori di sottofondo, sola punteggiatura musicale che accompagna la visione. Dal traffico al cadere di monete a terra, fino al suono dei corpi che si incontrano/scontrano nelle esplicite scene di sesso che ricordano l' armoniosità dei corpi dipinti da Botticelli e la vibrante carica sessuale delle opere di Egon Schiele. Slaboshpytskiy omaggia così il cinema muto, archè della settima arte, e, al tempo stesso, realizza una rivoluzione narrativa che porta l'immagine e il gesto a sovrastare la parola, costringendo lo spettatore ad un'attenzione che il cinema e la tv contemporanee hanno ridotto notevolmente, creando prodotti "da compagnia" che poco hanno a che vedere con il coinvolgimento emotivo ed intellettuale.
L'amore come rivoluzione
L'elemento di rottura che scatena in Sergey la ribellione verso quel sistema del quale lui stesso si fa protagonista per sopravvivere nel collegio dove gli studenti sono lasciati a loro stessi, senza una guida o un riferimento che li accompagni nella crescita, è dato dal nascere in lui di un sentimento profondo nei confronti di Anna, una delle due giovani ragazze costrette a prostituirsi ai camionisti in sosta nella periferia di Kiev dai suoi compagni di classe. La bellezza tragica di questo sentimento è costruita da Myroslav Slaboshpytskkiy come rivelazione lenta della quale lo stesso Sergey non sembra rendersi conto immediatamente. Ecco che, durante la visione del film, vengono alla mente i versi dell'Aminta di Torquato Tasso: " [...] sospirava sovente e non sapeva la cagion de' sospiri. Così fui prima amante ch'intendessi che cosa fosse amore". Sergey s'innamora di Anna ancor prima di sapere cosa sia l'amore e, a sua volta, lei scopre, forse per la prima volta, la dolcezza e il calore dietro la meccanicità di un gesto che non ha mai avuto per una valenza emotiva. Il regista ucraino riesce a trasmetterci tutta questa varietà di emozioni umani semplicemente con i gesti dei suoi personaggi, spiazzandoci e scioccandoci con delle sequenze crude e disturbanti alle quali contrappone brevi schegge di dolcezza e amore.
Movieplayer.it
4.5/5