Recensione Running on Karma (2003)

Dopo il bellissimo e personale "PTU", Johnny To, coadiuvato da Wai Ka-Fai, torna a un cinema di stampo più commerciale, che tuttavia non manca di mostrare, in questo caso, spessore e buon senso dello spettacolo.

Muscoli e buddismo

Dopo le luci iperrealiste e la notte perenne in cui erano immersi i poliziotti dello splendido PTU, Johnny To e la sua Milkyway sono tornati, nel 2003, a progetti di stampo più prettamente commerciale, con la commedia Turn left, turn right e questo strano, ibrido, ma sicuramente non disprezzabile Running on Karma.
Codiretto da To insieme all'amico Wai Ka-fai e interpretato da una star navigata come Andy Lau e dalla più giovane Cecilia Cheung, il film propone un curioso e non sempre bilanciato intreccio di generi, in cui trovano posto il noir, la commedia, il fantastico, le arti marziali, il melodramma e persino i film sui supereroi occidentali (troviamo in particolare una lunga sequenza che cita prima Spider-Man e poi il più stagionato Superman di Richard Donner). Lau interpreta qui uno spogliarellista con un fisico scolpito (a dir poco) che ha un passato da monaco buddista e la sovrannaturale capacità di vedere, nelle sue stesse parole, "le cause e le conseguenze"; l'uomo incontra una giovane agente di polizia e ha l'immediato sentore che questa è destinata ad una morte violenta. Il ricordo dell'assassinio di una sua amica, a cui non riuscì ad opporsi, farà in modo che il gigantesco ex-monaco faccia di tutto per contrastare il destino, proteggendo la giovane come meglio può.

Cinema ibrido, quindi, probabilmente non adatto a chi non è avvezzo alle iperboli e alla sfrontatezza tipiche del cinema hongkonghese: le situazioni paradossali e folli in cui i due protagonisti si vengono a trovare fanno parte di un bagaglio consolidato di sketch e momenti grotteschi che hanno ormai fatto la storia del cinema (almeno di quello più specificamente commerciale) della ex-colonia britannica. La narrazione è frammentata, gli ammiccamenti al pubblico cantonese sono evidenti, a cominciare dalla presenza di Lau (e dal suo gigionesco modo di recitare) per continuare con l'elemento marziale, con le coreografie comunque eleganti di Yuen Bun. Eppure, quello che poteva essere un semplice prodotto mainstream come tanti altri diventa invece qualcosa di più interessante, grazie a una sceneggiatura che, pur nelle sue imperfezioni, riesce a toccare temi di una certa importanza con una leggerezza che non esclude profondità e spessore. La malinconia espressa dal protagonista, e il suo perenne senso di colpa per non essere riuscito a salvare l'amica, ben si sposano con lo spaesamento e la crescente paura della giovane poliziotta; la storia d'amore tra i due, sussurrata e, in fondo, disperata, è semplice e coinvolgente. La regia di To e Wai si adatta bene ai diversi registri che il film di volta in volta assume, con continui cambi di ritmo che enfatizzano a seconda delle situazioni l'elemento d'azione, quello romantico o quello più prettamente comico. Il finale è l'ennesima, bella sorpresa del film, un epilogo inaspettato e persino commovente che riesce a far dimenticare le ridondanze e le cadute di tono di una sceneggiatura certo non perfetta.
Gli interpreti funzionano complessivamente bene: Lau, seppur un po' gigioneggiante, continua ad avere un carisma non indifferente, mentre la Cheung è molto efficace nel rendere il graduale cambiamento di stato d'animo del suo personaggio. Si può poi chiudere un occhio, in definitiva (anche se a volte bisognerebbe chiuderli entrambi) sulla realizzazione "artigianale" dei muscoli di Lau.

Un'altra buona prova per la Milkyway, insomma, un riuscito esempio di come si possano coniugare spinte diverse (commerciale, artistica, di apertura per le nuove tendenze del cinema cantonese) in un prodotto che, pur con i suoi difetti e il suo equilibrio non sempre perfetto, riesce a intrattenere con intelligenza e buon senso dello spettacolo.

Movieplayer.it

3.0/5