Recensione Sfiorando il muro (2012)

Silvia Giralucci, figliia di un militante missino ucciso dalle BR, racconta la vicenda di suo padre e quella più generale degli anni '70, cercando di dare una sua lettura di uno dei più difficili periodi della storia italiana recente.

Muri immateriali. Ma pesanti.

Padova, 17 giugno 1974: un commando delle Brigate Rosse fa irruzione in una sede del Movimento Sociale Italiano, uccidendo Giuseppe Mazzola, carabiniere in congedo, e Graziano Giralucci, agente di commercio, entrambi militanti del partito. L'azione, forse pensata inizialmente a semplice scopo intimidatorio, segna il "salto di qualità" della lotta armata: da allora, l'attacco al cuore dello Stato teorizzato dai brigatisti si tradurrà in una lunga scia di sangue, che lascerà sul campo vittime appartenenti alle più svariate categorie sociali oltre a esponenti di tutti i colori politici, accomunati dall'opposizione a una "rivoluzione" che avrebbe avuto conseguenze tragiche. Cinque anni dopo, il 7 aprile 1979, il sostituto procuratore Pietro Calogero emette un mandato di arresto nei confronti dei principali leader locali di Autonomia Operaia e Potere Operaio: è un colpo mortale al movimento del '77, che ne decapita i vertici accomunandolo definitivamente, a livello giudiziario ma prima ancora nel sentire collettivo, alla lotta armata. Un trentennio dopo, Silvia Giralucci, figlia del militante missino ucciso dalle BR, tenta di fare quello che si chiama 'riannodare i fili della memoria': partendo dalla sua esperienza personale, che l'ha vista privata del padre a soli tre anni, la donna torna sui luoghi della sua Padova che furono trasformati in teatro di guerriglia urbana, cerca di ricostruire il sentore di quegli anni, la paura di chi li ha subiti ma anche l'eccitazione mista a vertigine di chi, allora ventenne o poco più, credeva davvero che la sua azione fosse preludio di un'imminente, e radicale, trasformazione sociale.

Raccontare, e valutare criticamente, un'opera come Sfiorando il muro non è affatto compito facile. Silvia Giralucci, che già aveva narrato in un libro la vicenda di suo padre, dà ovviamente a questo documentario un taglio estremamente personale e sentito: non potrebbe che essere così, data la pecularità e le implicazioni della vicenda raccontata, e data la più volte sottolineata "rimozione", nella memoria collettiva, di un fatto di sangue che segnò al contrario una svolta fondamentale (e tragica) di uno dei periodi più difficili della nostra storia recente. Come ha ricordato lo stesso co-regista Luca Ricciardi, nell'incontro seguito alla presentazione del film, fuori concorso, all'ultimo Festival di Venezia, il punto di vista della donna è assolutamente "parziale": e ciò, si badi bene, eliminando ogni connotazione negativa a questo termine, e traducendolo semplicemente, e letteralmente, come l'ottica di una persona che è stata parte in causa, direttamente e in modo duraturo, dei fatti raccontati. Un'ottica che, malgrado l'intenzione (lodevole) di fare del documentario un racconto collettivo, informa inevitabilmente di sé gran parte dell'opera: se lo sguardo, nel corso dei circa sessanta minuti di durata del film, si allarga sovente a descrivere sogni, speranze e tragici errori di una generazione, la ricerca di risposte (in gran parte inevasa) resta assolutamente personale.
In questo senso, il documentario non ha paura di prendere posizione su fatti tuttora controversi, oggetto di letture contrapposte, come il già ricordato processo del 7 aprile: il filosofo e leader dell'Autonomia Toni Negri (ritratto in apertura durante un convegno commemorativo) e gli altri vertici del movimento che furono oggetto di arresti e misure restrittive, non vengono certo ritratti sotto una luce positiva. Il rifiuto da parte di Negri e degli altri leader di quegli anni a farsi intervistare per il film, ribadito dalla regista sia nel corso del documentario che nel successivo incontro al Lido, mostra la perdurante difficoltà a consegnare alla storia quel periodo tragico, a causa (anche) del rifiuto dei suoi stessi protagonisti a rapportarsi (e a raccontarsi) alla parte a cui si contrapponevano. In questo senso, resta al contrario molto bella e sentita la testimonianza dell'unico militante che ha accettato di offrire la sua testimonianza al documentario, quel Raul Franceschi raggiunto dalla regista in Francia, dove si giovò, accusato di semplici reati associativi, della cosiddetta dottrina Mitterand.
Oltre a proporre interventi di altri protagonisti di quegli anni (tra questi, quello molto preciso e puntuale di Guido Petter, professore universitario che fu aggredito e picchiato selvaggiamente dagli autonomi, e quello di quell'Antonio Romito, ex Potere Operaio, dalla cui denuncia partì l'indagine che portò al 7 aprile) Sfiorando il muro tenta una lettura orizzontale di quegli anni, concentrandosi anche su quell'estremismo di destra di cui il padre della regista, ventinovenne all'epoca della sua morte, fece attivamente parte. La riflessione, comprensibilmente meno presente rispetto ad altre componenti del film, sull'attività e sulla stessa figura di Graziano Giralucci, porta a quella che è la domanda principale del film: perché? Quale fu la molla che trasformò la lotta politica, la legittima rivendicazione di idealità, progetti e utopie, in uno scontro violento che avrebbe lasciato sul campo tanti morti e altrettante vite rovinate? La risposta, affidata nel finale alle parole di Stefania Paternò, allora collega di partito di Giralucci, è inevitabilmente deludente. E' riduttivo pensare che gli anni '70, con tutte le tragedie che essi portarono con sé, possano essere ridotti a un "orribile gioco di bambini". La stessa Silvia Giralucci, nell'incontro successivo alla proiezione, l'ha implicitamente ammesso: c'erano energie, spinte ideali, genuina voglia di esistere e di contare, in quegli anni. C'era, soprattutto, un'enorme spinta alla trasformazione. Come questa avrebbe poi preso la piega che ha preso, con gli esiti tragici che tutti conosciamo, resterà probabilmente oggetto di discussione ancora per molto tempo.

Movieplayer.it

3.0/5