Ha riscosso consensi anche nella sua proiezione stampa romana, The Artist. Dopo la presentazione in concorso all'ultimo Festival di Cannes, i lusinghieri giudizi della critica internazionale e l'acquisto oltreoceano da parte di Harvey Weinstein per una probabile corsa agli Academy Awards, il film muto del regista Michel Hazanavicius, che si rifà esplicitamente agli anni '20 citando inoltre Cantando sotto la pioggia, si prepara a sbarcare anche nel nostro paese. Operazione cinefila e raffinata, filologicamente fedele al cinema che vuole omaggiare ma anche sottilmente ironica, e soprattutto classica storia d'amore sullo sfondo della storia del cinema, l'opera del regista francese è stata presentata ai giornalisti romani (con qualche disagio a causa di due rulli invertititi, che hanno inserito nella storia una specie di flashback non voluto) prima di un incontro in cui lo stesso regista ha spiegato la genesi del suo singolare progetto, e i motivi che lo hanno portato a realizzarlo.
Com'è nata l'idea di un film di questo tipo?
Michel Hazanavicius: L'idea è nata dalla mia grande voglia di girare un film muto, voglia che avevo già da 7-8 anni. E' stato difficile reperire i fondi, molti mi dicevano che non era una cosa fattibile, ma a progetti del genere bisogna crederci. A me piace molto il format del muto, perché è lo spettatore a inserire mentalmente il suono e a ricreare il film: in questo caso, meno il regista fa, più lo spettatore ci mette di suo. E' un cinema di narrazione pura, in cui si racconta una storia attraverso le immagini.
Qual è stata la reazione dei produttori, quando ha proposto loro questo progetto?
Credo che la persona più folle sia stata proprio il produttore Thomas Langmann ad accettare, credendo nel film e mettendoci anche del denaro personale, dando fiducia ad un'idea che non era la sua.
Come ha lavorato con gli attori?
Il film è stato un grande successo internazionale, e potrebbe concorrere addirittura agli Oscar. Si aspettava questo risultato?
Non mi aspettavo davvero che fosse in corsa per gli Oscar, ma devo dire che, quando giro un film, il mio scopo è quello di sedurre il pubblico: a ciò che accade fuori dalla sala ci pensano produttori e distributori. Quella di questo film, comunque, è stata una bella storia che nasce dal basso; tanti presagivano che sarebbe stata una pellicola confinata ai circuiti d'essai, invece il suo successo è cresciuto sempre più.
Recentemente, John Lasseter della Pixar ha detto che ciò che era vecchio può essere riscoperto e diventare nuovo. Questo può valere anche per il muto?
Lasseter ha ragione, e la prova è che oggi il pubblico sta riscoprendo il valore del muto, la sua purezza narrativa. Devo dire di aver adorato questo film, ma non so se ne rifarei un altro simile: per ora non è in programma, ma in presenza di una bella storia, chissà.
Tutti i grandi registi moderni hanno girato in bianco e nero. Lei, per questo film, che tipo di bianco e nero ha usato?
Orson Welles disse che il bianco e nero è il miglior amico degli attori, e aveva ragione: come per il muto, il bianco e nero lascia allo spettatore più possibilità creative, è lui che deve aggiungere il colore. Il bianco e nero, inoltre, elimina le imperfezioni della pelle, e il formato 1.33:1 esalta i primi piani: insieme concorrono a un processo di divinizzazione dell'attore. In questo film ho usato molto i grigi, specie nelle situazioni più negative per il protagonista; in quelle positive, invece, la fotografia è più contrastata.
Chaplin per anni si è rifiutato di fare film sonori, sostenendo che il cinema, col sonoro, avrebbe guadagnato meno di quanto avrebbe perso. A 90 anni di distanza, pensa che quella fosse una posizione esagerata?
Chaplin era talmente perfetto nel gestire i suoi personaggi, che era impensabile che Charlot potesse parlare: era come se Picasso, a un certo punto, si fosse messo a fare fotografia. Non a caso, con l'avvento del sonoro, il cinema di Chaplin ha continuato a vivere, ma il personaggio di Charlot no. Io penso che con il sonoro abbiamo guadagnato, complessivamente, ma contemporaneamente si è persa l'utopia di un linguaggio cinematografico puro, universale. E' un peccato che sia arrivato così presto: se il sonoro avesse impiegato altri 10 anni ad arrivare, per un decennio avremmo visto tante opere interessanti.
Il cane non è un attore, ma aveva la caratteristica che gli piacevano le salsicce... è bastato quello per farlo recitare! Mi piaceva perché lo trovavo un elemento simpatico, ma col tempo è diventato una vera e propria star; inoltre, lui ha il potere di cambiare il protagonista, che in fondo è un egocentrico, un egoista che alla lunga avrebbe potuto stancare lo spettatore. La fiducia che il cane ripone nel suo padrone ci fa pensare che, forse, un po' di fiducia quest'uomo la merita, nonostante tutto. Inoltre, è importante il particolare che il cane non parla, ma abbaia, comunica al di là del linguaggio e delle parole e per questo diventa un elemento fondamentale del film: è stato un elemento non voluto, questo, ma è stata una fortuna che ci sia capitato.
Cosa può dirci sul suo prossimo progetto?
Sarà un film a episodi intitolato Les infidèles, concepito come un omaggio al cinema italiano degli anni '60 e a titoli come I mostri e I nuovi mostri. Degli episodi di cui si comporrà, io ne dirigerò uno.