In un mondo diviso da conflitti e ideologie, l'entrata in scena di un nuovo messia, o presunto tale, potrebbe unire o, come accenneremo nella nostra recensione di Messiah, far emergere sospetti e tensioni individuali e sociali. A cosa e a chi credere in una società in cui le fake news sono all'ordine del giorno e ogni persona potrebbe essere una pedina all'interno di un gioco di inganni per destabilizzare governi e fedeli?
La serie creata per Netflix da Michael Petroni, già autore di Miracles, parte da questo spunto per proporre un racconto che intreccia politica e crisi personali ma che forse avrebbe avuto bisogno di concentrarsi maggiormente sui suoi elementi di forza per mantenere alta l'attenzione creata nei primi episodi senza alcun calo di tensione.
La prima stagione del progetto, di cui non è ancora stato annunciato il possibile (e probabile) rinnovo, fatica a dare ai suoi protagonisti le giuste sfumature, ma risulta comunque un progetto interessante e che merita una visione.
Un'apparizione sconcertante
La storia prende il via quando in Siria appare un giovane, presto soprannominato Al-Masih (Mehdi Dehbi), che sostiene di parlare a nome di Dio e di avere una missione. Il "profeta" inizia ben presto ad avere molti seguaci mentre all'estero si inizia a temere che la sua entrata in scena sia legata a un piano ben ideato da gruppi terroristici o criminali, considerandolo immediatamente un impostore. A indagare sulla situazione è l'agente della CIA Eva Geller (Michelle Monaghan), dal passato complicato e segnato da eventi drammatici, che si ritrova a seguire quanto accade e a cercare risposte. Nell'intricata situazione hanno inoltre un ruolo importante l'agente israeliano Aviram (Tomer Sisley), un ragazzo chiamato Jabril (Sayyid El Alami) che ha una fede apparentemente incrollabile in al-Masih, la famiglia Iguero (John Ortiz, Melinda Page Hamilton e Stefania LaVie Owen) dal profondo legame con la religione e che nascondono non pochi segreti, e una giovane madre disperata (Emily Kinney) per la malattia della figlia.
Una storia a tratti fin troppo complessa
Le dieci puntate di Messiah non sfruttano in modo del tutto convincente l'idea alla base del progetto, riuscendo solo in parte a sviluppare i personaggi e le loro storie. Al termine della stagione, che lascia volutamente molte domande in sospeso, si prova la singolare sensazione che, nonostante il gran numero di elementi narrativi e la complessità dell'argomento, la serie avrebbe tratto giovamento da un minor numero di episodi che avrebbero forse reso meno dispersivo il racconto.
Gli sceneggiatori hanno infatti scelto di far evolvere le situazioni e i personaggi soffermandosi su dettagli non sempre particolarmente incisivi, delineando solo a grandi linee la protagonista interpretata da Michelle Monaghan, la cui vita privata costellata da drammi avrebbe meritato più cura e attenzione. Gli ovvi riferimenti ai testi sacri di molte religioni dovrebbero modernizzarne i contenuti e i messaggi, ma non sempre l'obiettivo viene raggiunto, perdendo in più di un'occasione il filo del racconto a causa dell'intrecciarsi di vite e location.
Il parallelo tra quanto accade in Medio Oriente e negli Stati Uniti è invece ricco di fascino e nell'ultima parte della stagione appare particolarmente efficace per far emergere le possibili conseguenze del fanatismo. L'elemento più importante dell'intero racconto, quello dell'inganno e del credere in ciò che si desidera, non in fatti dimostrabili e scientifici, funziona in modo non costante e con alti e bassi significativi: di grande impatto l'incontro con il fratello del presunto messia che ne rivela il passato, emotivamente coinvolgenti i "miracoli" e lo spiazzante epilogo, inseriti con intelligenza gli elementi più controversi come le scene ambientate in tribunale e le crisi di fede della famiglia Iguero, meno convincenti l'arrivo della "Maddalena" o quello che accade durante l'incontro trasmesso in diretta tv. Gli autori sono comunque riusciti a mantenere in primo piano gli aspetti più umani del racconto, mostrando i difetti e i pregi dei personaggi coinvolti a prescindere dalla loro origine geografica e credo religioso.
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Un cast di buon livello
Per quanto riguarda il cast Mehdi Dehbi fa quel che può con un ruolo che richiede un'espressività piuttosto limitata e battute sibilline al limite del sopportabile, proponendo sullo schermo una versione del profeta perfetta per la generazione Instagram, come dimostrano anche le scene in cui gli scatti del possibile messia finiscono proprio in rete sui social, in modo da alimentare i dubbi legati alla sua vera identità. Michelle Monaghan deve sfruttare la sua esperienza per non far sembrare la sua agente della CIA una brutta copia, seppur con delle dovute e necessarie modifiche, della protagonista di Homeland. L'attrice, in alcune sequenze, fatica più di quanto ci si potrebbe aspettare nel rendere il personaggio credibile e in grado di suscitare empatia nello spettatore nonostante gli sceneggiatori abbiano giocato fin dalle prime puntate la carta della donna segnata nel corpo e nell'animo dalle tragedie affrontate. Tomer Sisley trova il modo di uscire in più momenti dal modello di agente in difficoltà dai mille segreti, mentre Sayyid El Alami è ancora piuttosto acerbo nella sua interpretazione priva di chiaroscuri.
Da apprezzare, invece, il lavoro compiuto dagli interpreti della famiglia Iguero che, ognuno a suo modo, riescono a creare tra di loro il feeling giusto per portare sullo schermo delle persone profondamente legate ma al tempo stesso indipendenti. Emily Kinney, nonostante un ruolo molto limitato trova la giusta intensità per mostrare la sofferenza di una giovane alle prese con l'incubo di ogni madre, mostrandoci situazioni in cui si è pronti veramente a tutto pur di inseguire la remota possibilità di ottenere un lieto fine che sembra essere fuggito per sempre.
Una serie ben costruita visivamente
Messiah può contare poi sulla buona qualità tecnica che contraddistingue il progetto: la regia degli esperti James McTeigue (V per Vendetta) e Kate Woods è attenta nell'enfatizzare gli aspetti emotivi delle puntate e nel delineare situazioni realistiche e visivamente spettacolari, cercando un equilibrio quasi sempre efficace durante una visione in binge-watching. Molto interessante anche l'utilizzo di contrasti cromatici: il rosso acceso, per esempio, viene utilizzato solo in determinati contesti e scene chiave, in contrasto con i toni tenui della maggiorparte delle sequenze. L'ottima fotografia firmata da Danny Ruhlmann dona poi alla serie un aspetto quasi cinematografico che rende più di un passaggio quasi "pittorico" nella sua resa sullo schermo.
Lodevole, inoltre, la scelta di mantenere le lingue originali dei personaggi coinvolti aumentando così il livello di realismo. Anche le location sono state scelte con attenzione, mantenendo un forte legame con città vere come Washington o del Medio Oriente che gli spettatori di tutto il mondo conoscono, anche solo attraverso i notiziari.
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Conclusioni
Proporre un thriller politico-religioso non è una scelta semplice e priva di insidie, tuttavia la serie di Netflix, come abbiamo spiegato nella nostra recensione di Messiah, riesce a mantenere alta l'attenzione del pubblico pur dovendo fare i conti con qualche difetto e alcuni punti deboli. L'ottimo livello della produzione Netflix riesce a proporre dieci episodi che intrattengono pur spingendo alla riflessione con tematiche attuali e importanti. La formula creata per il progetto appare quindi vincente, nonostante una narrazione che avrebbe potuto essere snellita in fase di montaggio, evitando così molti passaggi che appaiono quasi inutili all'interno di un racconto che rischia di risultare fin troppo dispersivo.
Perché ci piace
- L'idea alla base del racconto è intrigante e ricca di fascino.
- La qualità tecnica e artistica è molto alta e si mantiene costante.
- Il parallelo tra Medio Oriente e Occidente è ben costruito.
- All'interno della trama la dimensione privata dei personaggi si intreccia bene con i problemi della società.
Cosa non va
- Nel corso della stagione ci sono più puntate poco solide a livello narrativo.
- Il gran numero di personaggi coinvolti rende un po' dispersiva la narrazione.
- Non tutti gli elementi sono gestiti con la stessa attenzione e cura.