Un film italiano, L'uomo che ama, aveva aperto il Festival del Film di Roma poco più di una settimana fa. A chiuderlo oggi un altro titolo di casa nostra, L'ultimo Pulcinella, diretto da Maurizio Scaparro, regista teatrale e direttore della Biennale Teatro di Venezia che si cimenta per la prima volta dietro la macchina da presa dopo il progetto multimediale sul Don Chisciotte. Liberamente ispirato a un soggetto inedito di Roberto Rossellini, il film racconta di un attore napoletano, interpretato da Massimo Ranieri, che non trova spazio per il suo Pulcinella nei teatri napoletani e si ritrova a rincorrere il figlio per Parigi, dove si è rifugiato per scappare dalla realtà squallida del suo paese e da un rapporto conflittuale col padre. Il regista dedica la sua opera a Rafael Azcona, co-sceneggiatore del film, scomparso due mesi fa, e racconta in conferenza stampa dei motivi che lo hanno spinto a realizzare L'ultimo Pulcinella. Assieme a lui, per parlare del film alla stampa presente al Festival, l'altro sceneggiatore Diego De Silva e l'autore delle musiche Mauro Pagani. Assente invece il protagonista, Massimo Ranieri, impegnato nelle prove di uno spettacolo teatrale, ma presente sul red carpet romano per la prima del film col pubblico.
Maurizio Scaparro, perché ha scelto di girare questo film?
Maurizio Scaparro: Sono stati i crampi che vengono a quelli come me che amano l'arte in tutte le sue forme. Non ne possiamo più di questo muro di stupidità, di violenza e di arroganza che sembra avere chiuso i rapporti tra chi vuole ancora sognare. L'ultimo Pulcinella nasce da questa voglia di continuare a sognare, ma anche da un conflitto generazionale che è molto forte oggi. Nel film il figlio scappa da Napoli perché è difficile vivere in quella città e va a Parigi, un luogo sognato, lontano da un padre che nel 2008 si ostina ancora a vestire i panni di Pulcinella. Finisce così nelle banlieues parigine e il padre lo segue, finendo così in un piccolo teatro. Qui ritrova il piacere di vedere se in uno spazio simile è possibile ricreare qualcosa, se si può trasformarlo in una piazza, in un luogo dove raccontare qualcosa all'altro. Mi piacerebbe che questo film aiutasse a frequentarci di più tra cinema e teatro, per non scivolare nella stupidità e nell'ignoranza.
Perché il suo Pulcinella trova spazio nelle banlieues parigine e non a Napoli?
Maurizio Scaparro: All'inizio del film vediamo Pulcinella, interpretato da Massimo Ranieri, che alla sua età fa un'audizione per ottenere dal direttore di un teatro napoletano la possibilità di mettere in scena un piccolo recital, ma sembra che per lui a Napoli non ci sia più spazio oggi. Le banlieues rappresentano quindi una fuga verso un luogo altro. Bisogna far nascere nuovi sogni e nuove speranze anche attraverso Pulcinella che è una maschera che racconta la verità.
Lei ha vissuto i suoi ultimi trent'anni tra Venezia e Napoli e oggi torna alla sua città natale, Roma, per chiudere il Festival. Quali sono le sue emozioni?
Maurizio Scaparro: Sono stato un emigrato di lusso, ho visto in diversi paesi dell'Italia e dell'estero, mantenendo però un grande amore per la mia città che è Roma. Come romano mi fa per questo un enorme piacere concludere il Festival. A legare Venezia, Roma e Napoli è il Mediterraneo, e su questo si fonda la speranza che l'Europa del futuro non sia solo quello delle banche, ma anche quello dei sentimenti e dei diversi Sud. Quindici anni fa, portavo in teatro Le mille e una notte proprio con Massimo Ranieri. Oggi se dici Baghdad nessuno pensa più a queste meravigliose novelle, ma solo alla guerra e alla violenza. Il mio film vuole essere profondamente europeo e mediterraneo l'esigenza di nascere in questo straordinario bacino di confluenze che vengono dall'Oriente.
Crede che la frequentazione tra teatro e cinema che lei auspica possa diventare una mutua assistenza?
Maurizio Scaparro: Il problema è la distribuzione. Il mio film sarà distribuito a fine febbraio grazie a una giovane società che vuole unire i due pubblici di teatro e cinema. Vogliamo far conoscere questi due mondi al maggior numero di persone. La mia multisala ideale è quella che ospita sia un teatro che un cinema, per offrire cose diverse ma simili, perché lo spirito è lo stesso.
Perché ha scelto proprio questo momento per questa sua prima incursione nel cinema?
Maurizio Scaparro: Il pubblico teatrale è molto vasto, quantitativamente anche superiore a quello calcistico. Purtroppo però la qualità media è sempre più bassa. Col mio film volevo parlare anche ad altri esseri umani che non possono arrivare al mondo del teatro perché magari dalle loro parti non esiste. L'incontro tra cinema e teatro avviene sui sentimenti, sull'uomo. Il teatro oggi attraverso un periodo di medietà per colpa di una struttura che non permette più agli attori di esprimersi a dovere. Ho conosciuto in passato Steven Spielberg e mi ha rivelato che è un grande appassionato di teatro e questa cosa mi ha provocato una grande emozione, perché ho capito che gli effetti speciali in realtà nascono dal cuore e non dalla tecnica.Perché ha scelto Massimo Ranieri come protagonista del suo film?
Maurizio Scaparro: Non avrei potuto fare questo film se non avessi avuto Massimo Ranieri che gode oggi di una straordinaria popolarità, così lontano dal Metello di Mauro Bolognini e autore in questo film di un'interpretazione incredibile.
Diego De Silva, come avete lavorato alla sceneggiatura del film?
Diego De Silva: Scrivere questo film è stato un po' un gioco. Maurizio è la persona più meravigliosamente bambina che io conosca, è un irrequieto giocoso che ti coinvolge con entusiasmo in tutto quello che fa. Mi piace pensare a questa storia come a una resistenza individuale, che è quella di questo uomo, padre e artista, che non riesce a diventare altro da quello che è. Nel momento in cui tutti lo abbandonano, lui resta sé stesso perché l'accettazione di sé è così forte che lo vincola a ciò che sa fare, alla sua maschera. L'arrivo a Parigi rappresenta una possibilità di ricostruire un rapporto col figlio.
Qual è la forza del film secondo lei?
Diego De Silva: Sicuramente la musica, grazie alla sua capacità di riunire persone e culture diverse attraverso un unico linguaggio. All'insegna delle possibilità offerte dalla musica nasce un nuovo teatro e si sana il legame tra padre e figlio.
Mauro Pagani, cosa ne pensa lei al riguardo?
Mauro Pagani: La musica napoletana ha una forza straordinaria, ha sopportato tanti anni di arrangiamenti brutti e ipercolorati per i 'cantanti di giacchetta', e la sua tradizione è molto più colta di quello che pensiamo perché Napoli è stata capitale di un Regno fino a duecento anni fa e la sua musica non si è lasciata travolgere dall'ansia di modellarsi sui suoni nazionali e dalla paura dei propri sentimenti. E' comunque fragile come vetro, c'è un limite oltre il quale si spezza e scompare. Per fortuna le sue radici mediterranee permettono una connessione naturale con le sue origini più lontane. Quella napoletana tra le musiche colte europee è quella che più ha mantenuto le tradizioni, conservando la sua capacità di incantare.