Marco, la recensione: nel film di Aitor Arregi e Jon Garaño nulla è vero, tranne la parola

Uno dei film più interessanti proposti alla Mostra del cinema di Venezia è sicuramente Marco. Opera sul potere della parola, e di un'esistenza passata come reale, ma del tutto inventata. O forse no.

Marco, un'immagine del film presentato a Venezia

"Megalomania: detta anche mania di grandezza. Tendenza ad assumere atteggiamenti di grandiosità, a cimentarsi in imprese sproporzionate alle proprie forze, a presumere esageratamente delle proprie possibilità". E in Marco (film presentato nella sezione Orizzonti all'ultima Mostra del cinema di Venezia) è la megalomania a tracciare i confini di un'esistenza che pare reale, per rivelarsi nella sua natura fittizia.

Marco Eduard Fernandez Foto
Marco: Eduard Fernández in una foto

Cosa c'è di vero e di falso nei nostri racconti? Quanto di combaciante con la realtà raccoglie l'immagine che offriamo di noi stessi agli altri? In qualità di esseri umani, fa parte della nostra natura modellare la realtà, impreziosirla di dettagli apparentemente sacrificabili, di miglioramenti apparentemente innocui, che una volta raccolti insieme comproveranno lo scostamento della nostra versione da quella originale. È una manipolazione della realtà, una natura fittizia del racconto che non solo fa da base fondante al film di Aitor Arregi e Jon Garaño (tratto da "L'impostore" di Javier Cercas) ma che è già ampiamente suggerita nell'elemento meta-cinematografico posto ad apertura dell'opera. Il ciak che fa la sua comparsa con il titolo del film stesso, è un gioco di scatole cinesi, di continui riflessi raccolti in una struttura in mise en abyme che sfruttano il potere di una finzione talmente elaborata da sembrare reale.

Il riflesso del finto reale

Marco Spanish Movie Poster
Marco, il poster del film

Quando decide di offrirsi in pasto a mille sguardi, uno specchio al cinema non lo fa per mostrarsi nella sua significazione primaria. Filtrato dalla potenza della cinepresa, lo specchio si fa raccoglitore di significati secondari, simboli e metafore di identità frammentate, scisse, plagiate e plagianti. Nell'universo di Marco, lo specchio si fa habitat perfetto di un processo di creazione, di attimo sospeso che separa l'attore prima della sua entrata in scena. Lo sguardo riverberato sulla superficie riflettente è un elemento reiterato all'interno del film: un punto di congiunzione e fil-rouge di un uomo fattosi attore, pronto a dare vita a una performance preparata a menadito, migliorata in ogni suo dettaglio, riproposta talmente tante volte da non separarsi più dalla realtà. Come una bugia ripetuta ad libitum, tanto da vestirsi di verità, così la storia di un uomo ordinario, reinventatosi come deportato in un campo nazista, diventa parte integrante della propria quotidianità. Una tessera di un puzzle creduto completo, ma adesso decostruito per lasciar spazio a nuovi racconti, con cui ricostruire una nuova identità. Le parole ripetute a scuola, a casa, tra amici, non sono ricordi personali, ma battute redatte con cura, imparate e declamate con fare sicuro e convincente, tanto da divenire ricordi falsati, parti di un sé che non esiste, se non nella mente altrui.

Lo sguardo che incatena la realtà

Marco Eduard Fernandez Primo Piano
Eduard Fernández in una scena del film

Marco è un gioco di confini labili che la regia di Aitor Arregi e Jon Garaño esacerba ancor più, infondendo di maggior plausibilità pensieri e memorie basate sull'inganno. Impossibilitata a distaccarsi da questo attore così magnetico e camaleontico, la cinepresa dei due registi rafforza la sicurezza di declamazione di queste battute, convincendoci della loro veridicità. Come uno spettatore in sala, la macchina da presa si ancora ai suoi gesti, alle sue elucubrazioni, alla sua performance da one man show da lui stesso curato, prodotto, ideato. Sarà solo nel momento in cui la menzogna si svelerà, e la natura fittizia di un'identità imbellettata, cesellata a proprio piacimento, come una scultura incompleta, e ora migliorata, verrà rivelata, che la cinepresa ritroverà la propria libertà di movimento. Carrellate, zoom improvvisi, riprese dall'alto, panoramiche: lo sguardo di Aitor Arregi e Jon Garaño si slega dal suo ruolo di osservatore passivo, per farsi spettatore cosciente e giudicante di un'esistenza (ir)reale.

Marco Eduard Fernandez Scena
Marco, una scena del film

L'incapacità di distinguere con sicurezza la finzione dal reale, e riconoscere il substrato affabulatorio di un'esistenza possibile, ma non documentabile, è un dubbio che non solo attanaglia lo spettatore fino alla fine, ma ricalca l'operato stesso del suo protagonista. Grazie alla convincente performance di Eduard Fernández, Marco diviene una storia inventata tratta da una storia vera, che di vero ha solo la sua natura inventata. Una reduplicazione di intenti che sfiora il parossismo, disorienta la mente, coinvolge lo sguardo.

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Marco, o essere della stessa sostanza della metanarrazione

È fatto della stessa sostanza di cui è fatta la metanarrazione, Marco. Un elemento cardine che va a rivelare la natura fittizia di un comparto mnemonico del tutto inscenato, inventato, mai vissuto dal suo protagonista, ma che allo stesso tempo esacerba il dubbio circa l'effettiva esistenza di un possibile Enric Marco, e l'appartenenza dello stesso film al genere biografico. È il potere della parola, quella ben strutturata, quella ben recitata; una parola che convince e viene accettata come unica e possibile restituzione della verità; è la parola menzognera, il falso che si fa verità.

Saggio sul potere dell'affabulazione, della capacità manipolatoria dell'eloquenza sulla mente umana, Marco si fa anche elaborato sull'arte del racconto. Un'arte di cui si nutre il cinema, per incendiare la fantasia dello spettatore, rendendo credibili esistenze nate dal seme dell'immaginazione. Mescolanza di wellesiana memoria tra vero e immaginato, Marco si fa falsario della realtà, diretto erede e perfetto candidato a quella galleria di contraffattori raccolti proprio in F come falso - verità e menzogne. Autore di un'esistenza impropria, di un passato redatto con l'inchiostro di traumi altrui, il protagonista riversa la propria bugia su un discorso etico e semiotico sulla potenza della parola; un'esigenza di ridipingere un quadro rubato da altri artisti, nata sulla scia di motivi ignoti, se non per puro narcisismo, pura megalomania. Ma forse anche questa motivazione è falsa. Falsa, come la realtà.

Conclusioni

C'è il potere della parola, la forza di piegare a proprio piacimento un'intera identità personale in Marco, film presentato nella sezione Orizzonti alla Mostra del cinema di Venezia 2024. Diretto da Aitor Arregi e Jon Garaño, il film rende reale una storia falsa (perché prestata all'universo cinematografico) considerata come plausibile soprattutto per la portata dei suoi racconti inventati. Una struttura in mise en abyme che convince e coinvolge, forte di performance attoriali naturali e realistici, e una regia mai banale, ma capace di infondere sicurezza e veridicità a un racconto inventato alla seconda.

Movieplayer.it
3.5/5
Voto medio
N/D

Perché ci piace

  • La performance di Eduard Fernández nei panni di Enric Marco.
  • Il proporsi come saggio sulla forza della parola e della manipolazione mentale attraverso il potere dell'arte.
  • Una regia capace di farsi prima sguardo passivo di una performance in atto, e poi schiaffo giudicante quando la menzogna verrà rivelata.

Cosa non va

  • Un calo di tensione al centro dell'opera.
  • Non aver caricato abbastanza sul rapporto tra l'uomo, la moglie e la sua famiglia abbandonata.