Il tradizionale incontro stampa che apre, ogni anno, il Festival del Film di Roma, ha visto quest'anno umori contraddittori nella stampa: se il programma di questa nona edizione è come sempre ricco, ed equamente suddiviso (come da tradizione della gestione di Marco Müller) tra proposte autoriali e cinema più prettamente popolare, ha lasciato perplessi più d'uno la cancellazione, in extremis, del film cinese The Dead End, presente nella sezione Gala. A quanto pare, il parere negativo della commissione censura avrebbe bloccato la proiezione del film; unitamente a questo, in mattinata si sono rincorse nell'Auditorium voci (poi rivelatesi infondate, e smentite dal direttore artistico nel corso della conferenza) su ipotetiche cancellazioni degli incontri con Joe Dante e Takashi Miike.
Al di là delle defezioni, quelle vere e quelle inventate, la manifestazione si è aperta con un ospite d'eccezione, la cui presenza conferma l'attenzione della gestione Müller al nostrano cinema di genere, specie a quello del passato: parliamo di Tomas Milian, storico interprete di spaghetti western e polizieschi tra gli anni '60 e '80, insignito del Marc'Aurelio Acting Award. Dopo i saluti di Müller e del presidente della Fondazione Cinema per Roma, Paolo Ferrari, è stato proprio l'attore cubano a incentrare su di sé l'attenzione dei giornalisti, con un assaggio della masterclass che lo vedrà protagonista nella giornata di domani.
Muller e Ferrari introducono la nona edizione
Il direttore artistico ha introdotto l'incontro spiegando i contorni di un'edizione che, come da tempo si dice, sta tornando ad assumere la fisionomia della "festa". "Ogni edizione è diversa dalla precedente", ha detto Muller, "e questa non fa eccezione. Quest'anno abbiamo avuto una virata precisa, da parte di un festival che sta diventando festa: va letta in questo senso la scelta di riallacciarsi alla commedia italiana, con un'apertura come quella di Soap opera di Alessandro Genovesi, che è un esempio di commedia diversa dalle altre. La chiusura con Andiamo a quel paese di Ficarra e Picone è una scelta che va ugualmente in questa direzione: il loro film offre un'ottica ulteriormente diversa sul genere della commedia italiana." Qualcuno domanda poi ai due qualche dettaglio sui dati economici di questa nona edizione. "Attualmente, tutto va per il verso giusto", risponde Ferrari. "I dati della vendita dei biglietti sono in linea con i risultati dell'anno scorso: questo, nonostante la crisi generale del mercato. Possiamo dire che è già un buon risultato".
La "resurrezione" di Tomas
In seguito, Muller e Ferrari hanno lasciato la "scena" all'attore cubano, che ha offerto alla stampa un lungo monologo, fatto soprattutto di ricordi personali. "Tra i tanti personaggi che ho interpretato, quello a cui sono più legato è senz'altro Monnezza", ha detto Milian. "A questo proposito, voglio raccontarvi una storia. Da piccolo avevo già deciso di lasciare Cuba per entrare nel mondo del cinema: la mia era una famiglia alto borghese, avevamo molti soldi, io facevo parte della high society ma non mi piaceva. Ero un ribelle, avevo un atteggiamento contrario a tutta quella società. Me ne andai, ma non dissi a nessuno che volevo fare l'attore: la scelta fu dovuta al fatto che avevo visto La valle dell'Eden, e mi identificavo con James Dean per via dei problemi del suo personaggio col padre. Il mio problema era più profondo del suo, però: io dovevo abbandonare tutto ciò che lui, militare che gestiva la famiglia col bastone, mi aveva insegnato. In quel film, lui si mette a seminare fagioli, per offrire poi i soldi al padre. Io volevo fare lo stesso con mio padre, fare tanti soldi e poi offrirli a lui: ma nel frattempo, lui si era già ucciso. Ricordo che andai da mia zia, che era un'intellettuale, sposata col preside dell'università: una donna colta, ricca, che mandava soldi a Fidel Castro nonostante l'opposizione dell'altra parte della mia famiglia. Io, senza saperlo, ero un piccolo fascista, insomma uno stronzo, diciamolo pure. Solo a mia zia dissi che me ne andavo perché volevo fare l'attore: le dissi che volevo farlo alla grande, che volevo essere accettato all'Actors Studio e conquistare l'America. Lei mi disse: 'Tommy, ma che personaggio vai a fare? Il ragazzino della società, che si alza all'una e va al country club, e poi va a cena al ristorante di moda? Che film noioso che sarebbe! Tu, se vuoi fare cinema, devi sapere cosa fa un uomo comune per portare il pane in tavola.' Questo mi stupì, io ero un cretino, ma lei mi aprì gli occhi. All'Actors Studio, dovevo passare due fasi: prima il preliminare, in cui c'erano 3000 aspiranti attori, di cui io ero l'unico cubano, poi eventualmente la fase finale. Scelsi la scena di uno spettacolo teatrale di Arthur Laurents, Home of The Brave: lì c'era un personaggio diventato paralitico in guerra, che si sentiva in colpa per non aver difeso il suo migliore amico: cosa che io abbinavo a mio padre, e al mio senso di colpa per non aver impedito il suo suicidio. So di essere stato autentico, in quell'occasione: ho seguito i dettami di Stanislavskij, non 'recitavo' ma vivevo le emozioni. Vinsi la prima audizione, tra i 3000 candidati, poi andai all'esame finale e lo superai". A una domanda che gli chiede che significato abbia, per lui, essere tornato nella città di Roma, Milian risponde con una sola parola: "E' la mia resurrezione".