Pubblicato nel 2004, con lo pseudonimo di Jiang Rong, dallo scrittore esordiente Lü Jiamin, editore cinese e attivista politico di sinistra, e basato in larga parte su esperienze autobiografiche, Il totem del lupo si è rivelato uno dei più clamorosi casi letterari dello scorso decennio, con milioni di copie vendute in patria e traduzioni in tutto il resto del mondo, fino all'immancabile adattamento cinematografico.
Un progetto ambizioso, a livello artistico e produttivo, reso possibile grazie agli sforzi congiunti del China Film Group, di altre compagnie nazionali e della francese Reperage, che hanno raccolto un budget di quaranta milioni di dollari. Una scommessa impegnativa e non priva di rischi, per la quale si è pensato di puntare sul sicuro affidando il timone del film, intitolato L'ultimo lupo, ad un regista ormai abituato a kolossal (o simili) di ampio respiro e dall'appeal internazionale: Jean-Jacques Annaud.
Jean-Jacques Annaud: orsi, tigri e lupi
Settantun anni, originario dell'Île-de-France e in grado di dividersi tra la Francia e i set all'estero (Hollywood inclusa), Jean-Jacques Annaud ha costruito, in quattro decenni di carriera, un percorso professionale atipico ma ricco di soddisfazioni: a partire dal suo lontano debutto, Bianco e nero a colori, impietosa e dissacrante descrizione del colonialismo francese in Africa, che nel 1976 valse a sorpresa ad Annaud il premio Oscar per il miglior film straniero per la Costa d'Avorio. Cinque anni più tardi il regista avrebbe firmato il ritratto preistorico de La guerra del fuoco, originale esempio di kolossal europeo, capace di suscitare enormi entusiasmi in Francia, ma di conquistare anche il pubblico estero. In Italia, Annaud è conosciuto soprattutto come il cineasta che nel 1986 è stato in grado di trasporre al cinema, in maniera più che degna, il giallo medievale Il nome della rosa, tratto dall'omonimo romanzo di Umberto Eco, mentre sul territorio francese il suo film in assoluto più amato (nove milioni di spettatori solo in patria, un record) rimane L'orso, del 1988, coinvolgente storia di sopravvivenza di un grizzly e di un cucciolo d'orso nella Columbia britannica, in cui già trapelavano l'amore e l'empatia per il mondo animale che sarebbero poi rimasti fra i tratti distintivi della filmografia di Annaud.
La carriera del regista sarebbe proseguita quindi con il dramma erotico L'amante, dal romanzo di Marguerite Duras, con il prestigioso ingaggio hollywoodiano di Sette anni in Tibet, con Brad Pitt, e con altre co-produzioni dal vasto richiamo commerciale, quali il dramma bellico Il nemico alle porte e una nuova 'fiaba' sul mondo animale, Due fratelli, con protagonisti una coppia di tigri. Da allora (era il 2004), Annaud ha collezionato anche due sonori fiaschi, Sa Majesté Minor e il film d'avventura Il principe del deserto, prima di tornare alla ribalta proprio grazie a L'ultimo lupo, accolto da un solido responso sia in Francia (un milione di spettatori) quanto soprattutto in Cina, dove la pellicola è stata distribuita nel febbraio 2015, collezionando solo nel primo mese di programmazione un incasso equivalente ad oltre cento milioni di dollari.
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Il richiamo della steppa
È possibile rintracciare due aspetti peculiari all'interno de L'ultimo lupo, due temi predominanti nella narrazione: una natura rappresentata nella sua componente più indomabile, selvaggia e, in taluni casi, addirittura di travolgente ferocia (si veda l'impressionante sequenza dell'assalto notturno al gregge da parte del branco di lupi); e, dal lato opposto, l'inaspettata connessione uomo/animale instaurata fra il protagonista del film, lo studente Chen Zhen (interpretato da Feng Shao-feng), appena inviato da Pechino nel cuore della Mongolia, e un cucciolo soprannominato Lupetto, che Chen prende sotto la sua protezione, occupandosi di allevarlo e di addestrarlo, nonché di proteggerlo dall'ostilità dei contadini e degli abitanti del luogo. A fornire il contesto storico della vicenda, la Cina del 1969, in piena Rivoluzione Culturale, e il conflitto fra una modernizzazione inarrestabile, ma dalle modalità spesso brutali e violente; è il Governo centrale, infatti, ad ordinare lo sterminio di tutti i lupi dell'area in questione, in contemporanea con la radicale trasformazione dello stile di vita imposta alle popolazioni mongole.
È questo, del resto, uno degli elementi al cuore della trama de L'ultimo lupo, benché Jean-Jacques Annaud non si preoccupi troppo di approfondire tali "lati oscuri" della Rivoluzione Culturale, virando piuttosto in direzione di una sorta di fiaba ecologica più schematica e dallo scarso mordente. Il rispetto nei confronti della natura, e quindi di una fauna che reclama la propria 'carnivora' libertà, diventa il vessillo attorno al quale il regista francese costruisce un racconto assai convenzionale nell'impostazione e nello sviluppo. E se, dietro la macchina da presa, Annaud e il suo direttore della fotografia, Jean-Marie Dreujou, riescono a conferire qualche traccia di poesia e suggestione all'apparato visivo dell'opera, nel complesso L'ultimo lupo sembra riconfermare però quel sospetto di accademismo che da sempre grava sulla produzione di Annaud, e che in questo caso appare particolarmente lecito. Tra eccessi di enfasi, inclusa la ridondante colonna sonora di James Horner, e prevedibili svolte alla Zanna Bianca, L'ultimo lupo manca di un'autentica potenza emotiva e risulta penalizzato da un sostanziale didascalismo di fondo.
Movieplayer.it
2.5/5