Dopo essere già stato a Cannes (fuori concorso) due anni fa con Stop the Pounding Heart, ultimo capitolo della sua trilogia sul Texas che gli ha permesso di vincere anche il David di Donatello come miglior documentario, il regista italiano Roberto Minervini è adesso grande protagonista della sezione Un Certain Regard con questo Louisiana (titolo originale The Other Side, ben più significativo), un nuovo sguardo sull'America più nascosta, quella in cui vivono persone che si sentono emarginate e tradite dal loro stesso paese e che scelgono soluzioni ai confini (e spesso ben oltre) della legalità.
Minervini è un filmaker non comune, e non solo nel panorama italiano; più videoreporter che regista, più confidente che realizzatore, il suo approccio è l'unico possibile se si vuole davvero raccontare certe realtà: conquistare la fiducia di coloro che vuole raccontare, diventare quindi prima ancora uno di loro, e poi mostarli al resto del mondo in modo integrale e assoluto, senza mai tirarsi indietro.
Confini invisibili
E bisogna ammettere che quanto mostrato in Lousiana a volte è davvero molto, molto difficile da mandare giù. Nella prima metà per esempio il protagonista è Mark, produttore/spacciatore/consumatore di metanfetamine che ha come unico desiderio quello di non tornare più in prigione ("almeno per quest'anno!") ma di rimanere piuttosto vicino alla sua famiglia e alla donna che ama. Con la stessa facilità con cui esprime pubblicamente questo suo desiderio, Mark si droga e fa sesso perdendo contatto con la realtà, la comunità in cui vive non meno bruciata e alienata di lui.
Come dicevamo Minervini non ci risparmia nulla, nemmeno per esempio l'immagine forte e disturbante di una stripper, visibilmente gravida, che si fa iniettare eroina nelle vene subito prima di salire sul palco per esibirsi, ma d'altronde proprio come Mark tutti i giovani di questa comunità dimenticata da tutto e tutti non sembrano trovare altro sollievo se non nella droga e nella compagnia e solidarietà l'uno degli altri. Al di fuori non c'è nulla, se non un governo e delle istituzioni sempre più disinteressate e capaci solo di arrestarli e rompere il loro "idillio". Il regista non vuole e non può più giudicare e lo stesso in fondo vale per lo spettatore: al contrario di quanto avviene in tanti film di finzione, in cui queste stesse azioni sono spesso ad opere di villain o antieroi detestabili, qui non sembra esserci alcuna distinzione tra buoni o cattivi o bene o male. La mancanza di una reale alternativa cancella ogni possibilità di redenzione o speranza.
Il nemico Obama
L'unica speranza, a dire il vero, sembrano averla i più anziani che paradossalmente sono gli unici a guardare al futuro. E il futuro parrebbe chiamarsi Hillary Clinton, l'unico (potenziale) presidente che potrà in qualche modo interessarsi a loro, poveri, deboli ed emarginati. Perché la Clinton? Perché in quanto donna rappresenta una "minoranza", una "debole" proprio come loro. Minervini non intervista e non interviene mai, lui documenta. Non possiamo quindi sapere (ma possiamo facilmente immaginare la risposta) se la stessa speranza fosse stata posta anni prima anche in Obama, che adesso viene invece ferocemente attaccato da tutti e accusato di aver "fregato anche i negri".
Nella seconda parte del documentario la "minaccia Obama" emerge ancora più forte, quando Minervini si sposta in un'altra comunità, quella paramilitare composta da ex forze speciali dell'esercito che addestra volontari in attesa dell'inevitabile colpo di stato che ci sarà nel giro di qualche mese: "L'ONU è già pronto ad intervenire, è già deciso" confessa il loro leader, un'altra invece già lamenta una cospirazione che vorrebbe togliere loro il diritto costituzionale di essere armati. E quando diciamo armati non parliamo ovviamente di una rivoltella, ma fucili d'assalto, attrezzatura militare e perfino lanciamissili.
Sono le stesse armi che vengono utilizzate per far saltare in aria un'auto con una scritta insultante verso il Presidente USA e che vengono riposte solo quando una prostitura concede a tutti loro una fellatio pubblica, ma con indosso una maschera di Obama. E' il 4 luglio, il Giorno dell'Indipendenza (e solo il citarla fa scendere le lacrime ad un omaccione corpulento e armato fino ai denti che farebbe sembrare Rambo uno sprovveduto), la festa di tutti gli americani, e loro festeggiano così, con uno striscione che chiede di "Legalizzare la libertà". Evviva l'America e le sue contraddizioni, evviva coloro che riescono a mostrarcele in modo così puro e diretto.
Movieplayer.it
4.0/5