Locarno, giorno 6: Il cuore di Locarno è uno zingaro

Nada scalda la serata locarnese con la sua voce roca, mentre il tenero romanzo di formazione catalano Petiti indi ci immerge in una dimensione malinconica e contemplativa e i documentari di Roberta Torre ci offrono uno spaccato delle borgate romane più periferiche.

E' la cantante livornese Nada Malanima la star di questa sesta giornata del Festival di Locarno. Mattatrice assoluta della serata introduce, insieme alla giovane regista Costanza Quatriglio, il documentario Il mio cuore umano, racconto per immagini e canzoni della sua vita, dagli esordi, appena tredicenne, al grande successo raggiunto con popolari hit come Il cuore è uno zingaro e Ma che freddo fa, fino alla malattia della madre e alla vita attuale divisa tra composizione musicale, tournée e una placida esistenza nella campagna del Gabbro, immersa nelle amate colline livornesi. A conclusione della proiezione Nada è salito sul palco improvvisato all'interno della sala cinematografica eseguendo i suoi pezzi più celebri, accompagnata dal chitarrista degli Avion Travel Fausto Mesolella. La sua voce grintosa ed emozionante e il sound dei pezzi celebri, magnificamente riarrangiati da Mesolella, ha contagiato inevitabilmente i critici presenti in sala (categoria notoriamente poco entusiastica di natura) spingendoli a muovere le teste, cantare e battere le mani a tempo.

La Piazza Grande ha assistito con interesse alla storia di un adolescenza complessa narrata nel delicato Petit Indi, romanzo di formazione catalano diretto da Marc Recha. Protagonista del film è un timido e silenzioso adolescente innamorato della natura e dei suoi uccelli canterini che attende con ansia mista a paura la scarcerazione della madre. Nel frattempo vive con la sua strana famiglia in cui spicca la presenza dello zio Ramon (l'ottimo Sergi Lopez) che sbarca il lunario scommettendo alle corse dei cani. Quella che sembra una facile scorciatoia per accumulare un po' di denaro si trasformerà, purtroppo, in una trappola letale. Una storia semplice immersa nella selvaggia periferia di Barcellona che a tratti affascina, ma manca di reale mordente. Il film si riprende nel drammatico finale, lasciandoci però l'amaro in bocca per le potenzialità contenute nella pellicola che si perdono per la strada lasciando spazio a una fastidiosa dimensione contemplativa che domina gran parte del lavoro.
Nemmeno il concorso si risolleva dalla sua medietà, presentandoci due road movie meditativi, caratterizzati da lentezza e scarsa incisività. Metacinema a go go per il cino-tibetano The Search, viaggio di un regista impegnato in un casting itinerante per trovare i protagonisti del suo film che dovranno incarnare gli storici principi Mande Zagno e Drime Kunden, personaggi centrali in una delle otto opere popolari tibetane riunite sotto il nome di Ache Lhamo. Dilatate peripezie immerse in uno straordinario paese, il Tibet, fotografato da campi lunghi e lunghissimi che ne esplorano la suggestiva vacuità per una pellicola rarefatta, ma priva di mordente.
Decisamente più convincente la lieve commedia iraniana Frontier Blues, ambientata nella regione di frontiera tra Iran e Turkmenistan, là dove si intrecciano le vite di quattro uomini: del giovane Alam, che aspira a imparare la lingua inglese e sposare la bella Ana, del solitario Hassam, del suo zio che possiede un negozio di abiti dove nessuno compra mai niente e di un pastore convinto da un fotografo a scarrozzare lui e un gruppo di bambini su e giù per il paese per fare delle foto 'realistiche'. Malinconia e rari attimi di divertimento accompagnano la grigia esistenza dei quattro, esistenza scandita dallo scorrere dei giorni tutti uguali in cui ogni improvviso sussulto di speranza viene riassorbito immediamente dal cupo tran tran quotidiano.
E mentre Pippo Delbono continua a illuminare il festival con la sua presenza, cimentandosi in uno scoppiettante incontro col pubblico in cui racconta sè stesso e il suo mestiere, e con la splendida retrospettiva dedicata alle sue opere, la sezione Ici et Ailleurs ci ha riservato un confronto con la regista Roberta Torre, ospite a Locarno per presentare i documentari Itiburtinoterzo e La notte quando è morto Pasolini. Il progetto nasce un paio di anni fa da un viaggio della Torre nelle periferie romane per realizzare uno spettacolo teatrale e da un incontro con Pino Pelosi, presunto omicida di Pasolini. I materiali di lavoro hanno poi assunto la forma di due distinti documentari, il primo dedicato ai ragazzi della Borgata Tiburtino Terzo e alle loro storie di droga e delinquenza, il secondo al Caso Pasolini. In entrambi i documentari la visionaria regista riesce a raccontare una situazione estrema con profonda verità restituendoci uno spaccato della Roma periferica. Nel primo lavoro la visionaria Roberta Torre gioca sulla mistificazione del porsi davanti alla macchina da presa dei ragazzi della borgata, bulli di periferia che però, davanti all'occhio vigile della cinepresa, si scoprono confessando la propria incapacità di condurre un'esistenza 'regolare'. Il lavoro che contiene l'intervista a Pelosi è più
complesso e delicato. A trent'anni dalla morte di Pier Paolo Pasolini, quello che all'epoca si professò autore del delitto, decide infatti di ritrattare la sua versione dei fatti indicando come autori materiali del delitto tre uomini sconosciuti, accompagnati dai fratelli Borsellino, all'epoca giovani delinquenti di borgata oggi scomparsi. Un lavoro in cui la Torre punta a fare emergere le incongruenze e le ambiguità di un uomo che ha trascorso la propria esistenza diviso tra il carcere e la borgata, bugiardo cronico e unico depositario di una verità che forse non verrà mai resa nota fino in fondo.