Uno show personale del regista William Friedkin accoglie gli spettatori della Piazza Grande e prende in contropiede un intimidito Frederic Maire, pronto a cedere palco e microfono al vulcanico cineasta che, dopo aver ricevuto il Pardo d'Onore in un tripudio di applausi, introduce la proiezione dello straordinario Vivere e morire a Los Angeles, un classico che resiste al passare del tempo grazie a un concept modernissimo e a un montaggio mozzafiato. Come da copione segue la proiezione dell'ennesimo anime, lo schizofrenico Redline, ambientato nel mondo delle corse di automobili. Se ne sconsiglia la visione a chi soffre di tremori e attacchi epilettici.
E veniamo agli ultimi film in concorso. Il raggelato dramma She, a chinese convince nonostante un finale rarefatto. La storia vede protagonista una giovane donna cinese che, in seguito a un evento traumatico, abbandona il
villaggio rurale in cui vive trasferendosi dapprima in una metropoli cinese per poi approdare a Londra. Ritorna il leit motiv, già visto ripetutamente in questa edizione del festival, dell'irrequietezza esistenziale, del desiderio di abbandonare la propria patria, il proprio compagno, la propria vita. Alla dimensione meditativa tipica di tanto cinema orientale, She, a chinese contrappone, però, un montaggio sostenuto e un utilizzo non comune della colonna sonora che accoglie al suo interno brani composti da John Parish in collaborazione con P.J. Harvey e con gli Eels. Look a tratti giovanilistico unito a una cupezza tematica di fondo. Trama non molto dissimile quella del bel dramma Nothing Personal, pellicola coprodotta da Olanda e Irlanda che vede all'opera una splendida coppia di attori, il veterano Stephen Rea e la rossa Lotte Verbeek, protagonista di una performance intensa e coraggiosa, il cui volto ricorda da vicino quella di una giovane Julianne Moore. La poesia dell'incontro tra due solitudini passa attraverso sterminate praterie scompigliate dal vento, cieli grigi e crepuscoli senza fine nella suggestiva regione del Connemara. La durezza e la diffidenza instauratesi inizialmente tra i due protagonisti si sciolgono pian piano cedendo il posto a un lento e reciproco avvicinamento descritto con laconica eleganza dalla regista polacca Urszula Antoniak. Per la stampa il film è uno dei due colpi di fulmine del concorso internazionale insieme al greco Akadimia Platonos. Chissà se la giuria concorderà. La chiusura del concorso è, invece, affidata alla coproduzione internazionale La cantante de tango, diretta dal regista argentino Diego Martinez Vignatti. Ritratto di una donna in piena crisi di nervi (per parafrasare Almodovar), anche questa pellicola si confronta con la presenza di una talentuosa interprete (Eugenia Ramirez Miori) che si carica sulle spalle il peso di un'opera caratterizzata da una sceneggiatura non particolarmente brillante. Il film alterna un'ostentata eleganza stilistica, densa di inquadrature pittoriche e di una fotografia nitida e luminosa, a lunghe pause narrative in cui sono i tanghi cantati dalla bella protagonista a catturare l'attenzione. Passa in secondo piano il plot, ridotto ai minimi termini e complicato dalla scelta di rimescolare la successione temporale degli eventi in un puzzle dove i tasselli del passato e del presente si alternano in modo confuso. Il film, che non nasconde le sue pretese autoriali, sceglie la via del finale aperto lasciando al pubblico un senso di incompiutezza e insoddisfazione nonostante la presenza di numerosi elementi positivi al suo interno. Nella speranza che la pioggia, che ha dato il buongiorno a quest'ultima giornata di festival, ci lasci per permettere lo svolgimento della tradizionale cerimonia di premiazione all'aperto, la Piazza Grande ci saluta con l'ultima pellicola in programma, The Two Horses of Genghis Khan, titolo del film, ma anche di un canto popolare mongolo che descrive la turbolenta storia di una terra antica e selvaggia. A metà tra fiction e documentario, la pellicola è diretta dalla regista mongola Byambasuren Davaa, co-autrice de La storia del cammello che piange, e segue la popolare canta Urna nel suo viaggio verso casa per onorare la memoria della nonna, riportando in Mongolia una testa di violino scampata alla Rivoluzione Cinese che porta incisi al suo interno i versi della canzone in questione. Col poetico road-movie ambientato nelle sterminate steppe mongole si conclude quest'edizione del festival che segnala fine del quadriennio Maire. Il prossimo festival vedrà, infatti, l'avvento del nuovo direttore, il francese Olivier Péré che, ci auguriamo, mantengainalterata la tradizione di indipendenza e anticonformismo che caratterizza la kermesse svizzera.