Eroi moderni, "sperimentatori dell'umanità" senza i quali probabilmente saremmo ancora all'età della pietra. Così Leonardo di Costanzo definisce i protagonisti del suo nuovo film L'intrusa (in concorso allo scorso festival di Cannes nella Quinzaine des Realisateurs), quando lo presenta alla stampa italiana alla vigilia della sua uscita in sala. A differenza dei suoi lavori precedenti l'attenzione si sposta dall'universo dei ragazzi ("credo di aver esaurito la tematica della preadolescenza con L'intervallo", spiega) al mondo degli adulti, in questo caso quello dei mediatori sociali come Giovanna (Raffaella Giordano), la protagonista, uomini e donne che per convinzioni politiche, religiose o semplicemente umanistiche decidono di dedicarsi alle fasce più deboli della società.
Quello che poi Di Costanzo mette in scena è il dilemma etico, il conflitto tutto interiore di Giovanna: accogliere o allontanare?
"I dilemmi insolubili sono alla base di ogni tragedia e nel quotidiano ci troviamo spesso davanti a situazioni simili, ci dice il regista: Il mio film racconta qualcosa di estremamente umano al di là della contemporaneità; queste persone stanno lì ad ascoltare, a sperimentare e a cercare soluzioni e se non ci fossero questi sperimentatori dell'umanità probabilmente saremmo ancora all'età della pietra. A me piace guardarli e vedere come agiscono e se riescono a trovare delle soluzioni".
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Il dilemma insolubile, il tragico e il reale
Cosa le piacerebbe che lo spettatore capisse dopo aver visto il film?
Stare accanto a Giovanna è come rivivere il suo dilemma e immaginare delle soluzioni. Le persone come lei vivono quotidianamente dilemmi di questo tipo e sono eroi della contemporaneità che sperimentano modi di vivere diversi per creare comunità, luoghi molto interessanti per tutti ma poco raccontati.
Includere, escludere, il bene e il male sono i limiti che queste persone sono costretti a rimettere continuamente in discussione: per me questo era molto interessante e drammaturgicamente i protagonisti sono personaggi ideali perché non sono chiusi, ma porosi e interpretano la contemporaneità. Per fare questo era importante che ogni elemento di questo universo avesse le proprie ragioni, infatti non c'è un cattivo, a parte il boss arrestato. Li capisco tutti e tutti vanno capiti.
Giovanna e Maria sono due donne diversamente tormentate...
Maria si trova in una condizione esistenziale e psicologica di estrema debolezza, il fuori campo che non conosciamo è che forse è stata presa da giovane sotto l'ala del Rais del quartiere ed ha vissuto alla sua ombra per anni, forse un decennio. Quando viene arrestata si trova per la prima volta di fronte alle proprie responsabilità e inizia a chiedersi dove sta andando e chi è.
È disorientata e per cercare di capire cosa fare andrà a nascondersi in quella casupola, dove nessuno può farle del male. Maria è come un animale ferito, non sa chiedere e ad una carezza potrebbe rispondere con una zampata.
Chiedere non fa parte del bagaglio di queste persone, hanno altri modi per raccontarsi e Giovanna è l'unica a capirlo e a realizzare che dietro a quell'atteggiamento si nasconde una richiesta di aiuto. Gli altri hanno il senso del rigetto proprio del gruppo, che tende a difendere le proprie scelte: la colpa di Maria è aver deciso da giovane di fare la signora e loro vorrebbero fargliela pagare.
Giovanna è un personaggio fermo e distante, perché non volevo rischiare di cadere melenso; il problema era come raccontare i buoni senza essere melensi e mi sono detto che la soluzione era mettere in scena un personaggio distante.
La distanza è la condizione essenziale di questo tipo di racconto: stare dentro mantenendo una distanza è una costante del mio lavoro, che ritrovo anche nell'attività di recupero di alcune comunità.
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Le prove, il teatro e il rapporto con l'adolescenza
Quante prove ci sono volute per lavorare con attori non professionisti e con un'attrice 'non attrice' come Raffaella Giordano?
Le riprese sono solo la fase terminale di un lavoro che in genere faccio molto prima. Raffaella non aveva nessun tipo di rapporto con la parola, ho dovuto lavorare molto per convincerla a recitare nel film; è una coreografa, non aveva mai recitato e soprattutto aveva problemi di memoria. Era abituata a memorizzare tramite i gesto e ogni volta che cambiavamo una battuta era necessario ripetere tutto, per darle la possibilità di associare la nuova frase a un nuovo gesto. Parlo di un fatto di cronaca e quando ho individuato gli elementi del tragico ho pensato subito che ogni parte in causa dovesse avere molto dialogo per raccontarsi, perciò siamo partiti da una sceneggiatura molto parlata. Poi pian piano abbiamo asciugato molto i dialoghi e siamo arrivati a una essenzialità della narrazione.
Quando abbiamo iniziato a lavorare con gli attori questa operazione pulizia è continuata e mi sono reso conto che stavamo passando da un teatro di parola a un teatro molto legato al corpo. È stato molto complicato per gli attori perché ognuno aveva a quel punto pochissime possibilità di raccontarsi con la parola; la versione finale della sceneggiatura è arrivata al termine di questo percorso con gli attori.
Ognuno poi in fase di ripresa ha arricchito il personaggio con l'improvvisazione pur sapendo benissimo quello che avrebbero dovuto fare; è un po' come succede agli attori di teatro che ogni sera ripropongono lo stesso spettacolo e mi raccontano che però ogni sera è come se fosse uno spettacolo diverso, dipende dal pubblico in sala. Per noi è stata la stessa cosa, abbiamo lavorato con questo stesso spirito e sono molto debitore al teatro.
Anche nei suoi documentari precedenti trovano spazio dei luoghi concentrazionari e con protagonisti dei preadolescenti. Il rapporto con i ragazzini sta diventando fondamentale nella sua narrazione, come lo spiega?
Li seguo senza ingabbiarli in una sequenza predefinita, mi piace coglierli in questa fascia di età in cui camminano su una linea di confine con il rischio di cadere da una parte o dall'altra, e li racconto racchiudendoli in degli spazi. Qui però, come anche in A scuola, l'attenzione e più concentrata sugli adulti: i bambini sono il motore del dramma, ma il fuoco sono gli adulti. Credo di aver esaurito questa mia tendenza con L'intervallo, ma ho dovuto costantemente difendere il film da questo aspetto, perché la sceneggiatura tirava spesso verso il cattivo che si redime o verso il mondo dei bambini.