Minuta e affascinante come un tempo, la luminosa Leslie Caron è ospite al Locarno Film Festival per un duplice motivo. Oltre a fare da madrina alla retrsopettiva dedicata a Vincente Minnelli, l'attrice si offre al suo pubblico per presentare la sua autobiografia, intitolata Une Française à Hollywood - Thank Heaven, firmata a quattro mani col critico Serge Toubiana che è presente a Locarno insieme all'attrice per una 'chiacchierata cinematografica'. "La mia vita è stata un'avventura incredibile" ha spiegato la Caron. _"Ho iniziato giovanissima e ho lavorato quasi sempre in paesi anglosassoni senza aver programmato di diventare un'attrice. La mia grande passione era la danza. Quando avevo diciassette anni ed ero prima ballerina del corpo di ballo des Champs Elysées, diretto da Roland Petit, Gene Kelly venne ad assistere a uno spettacolo. Alla fine, dopo che avevo fatto già ritorno a casa, mi chiamarono per dirmi che lui voleva incontrarmi. Gene mi propose di fare un film con lui e così è cominciata la mia avventura a Hollywood. _
Come è nata la passione per la danza?
Leslie Caron: Mia madre era una ballerina e quando ero piccola mi narrava storie legate a quel meraviglioso mondo. Sapevo il nome di tutti i più grandi ballerini e mi divertivo a danzare in casa, sulla spiaggia. Per me la danza era l'Olimpo, era un mondo fantastico così ho abbandonato la scuola e ho iniziato a studiare duramente. Ballavo per ore tutti i giorni, mi sono sottoposta a una disciplina durissima e alla fine sono riuscita a entrare nel balletto di Roland Petit dove sono diventata etoile.
Per una giovane attrice francese che, senza sapere la lingua, si reca a Hollywood e diventa celebre con un capolavoro come Un americano a Parigi, cosa pensi di Hollywood. Come è stato il tuo impatto con quel mondo?
Piuttosto traumatico. Quando sono arrivata lì ho scoperto un mondo estremamnte professionale, ma molto rigido e pieno di regole. Le giovani star venivano truccate e pettinate tutte nello stesso modo per accentuarne il glamour. Io, nelle mani di truccatori e parrucchieri, mi sentivo un oggetto privo di anima entrato in una catena di montaggio e per me è stato terribile. Non avevo costumi né vestiti, allora mi hanno regalato i vestiti di Elizabeth Taylor e mi hanno trasformata in una bambola. Le giovani stelle dovevano sottoporsi a lunghissime sessioni di fotografie e tutte avevano le foto sulla spiaggia in estate o comunque nelle stesse posizioni. Era tutto artificiale, ma queste erano le regole del marketing. Solo poche dive, come la ribelle Katharine Hepburn col suo celebre chignon, riuscivano a mantenere la propria personalità. Io ho sofferto molto questo aspetto della fama, ma per fortuna ho trovato persone come Gene Kelly e Vincente Minnelli che mi hanno protetto.
Il mondo intero, però, sogna Hollywood e i suoi film fanno parte dell'immaginario collettivo.
Anche io, ma quando l'ho sperimentato personalmente mi sono resa conto che è un mondo artificiale. Così, dopo essere diventata famosa ho voluto riprendere in mano la mia vita, ballare, studiare l'inglese, fare foto vere e non più i soliti scatti artificiali. Hollywood, ai tempi in cui sono arrivata io, era un universo molto maschilista e alle donne erano affidati pochi ruoli. Quando sono tornata in Francia, per esempio, ho scoperto che le montatrici erano tutte donne, mentre a Hollywood erano rarissime.
Parlaci di Un americano a Parigi.E' stata un'esperienza incredibile. Gene Kelly aveva ingaggiato una compagnia di ballerini. La mattina ci esercitavamo alla sbarra e poi per tutto il giorno provavamo i balletti. Vincente Minnelli era una persona estremamente timida e silenziosa, ma con la sola presenza teneva sotto controllo il set. Era molto concentrato sul suo lavoro, sulla resa finale delle rirprese e siccome Un americano a Parigi era uno dei primi film a colori , questo era un aspetto che curava con grande attenzione. Lui e Gene Kelly erano molto amici, si ammiravano, si rispettavano ed erano in grande confidenza. Quando era il momento di filmare i numeri di danza Vincente si ritirava e lasciava la macchina da presa a Gene, mentre lui si occupava degli aspetti comici, dello stile, delle invenzioni narrative e del montaggio. Come Louis Malle, René Clément, James Ivory e René Clair aveva la capacità di controllare il senso del racconto e di posizionare la macchina da presa nel posto giusto, ma sapeva anche donare colore e vivacità unici alle sue opere.
Quale è il momento della tua vita che ricordi con maggior nostalgia?
L'infanzia. Credo che sia stato il momento più bello della mia vita. Prima della guerra ho passato un'infanzia protetta, serena, privilegiata. Mi ricordo di mia nonna, delle vacanze, delle gite alla spiaggia, circondata da tanto affetto. L'arrivo della guerra ha trasformato tutto con il senso di morte, la paura, la tristezza e la povertà. Mi ricordo soprattutto la paura. Anche quando è finita ci ho messo del tempo a liberarmi del terrore dei soldati.
##Perché a un certo punto hai abbandonato le commedie musicali e hai deciso di cambiare genere?## Ho smesso di fare commedie musicali per questioni finanziarie. Con il cachet strappato dalla Taylor per Cleopatra, per gli studio si creò un precedente pericoloso, visto che tutte le star puntavano a ottenere ingaggi stratosferici e le grande majors sottrassero denaro alla commedia musicale. In più l'arrivo dei film realisti di Elia Kazan ha influenzato il pubblico tanto da spingerlo a cambiare gusti e a chiedere un altro genere di film. Al tempo stesso io avevo deciso di lasciare Hollywood perché mi ero innamorata. Nel 1953 avevo girato Lili, un film che venne ritenuto mediocre perché non conteneva grandi numerosi musicali né ballerine vestite con costumi straordinari. Per salvare la mia carriera Minnelli mi offrì Gigi dicendomi che il soggetto era perfetto per me. Per prepararmi al film ho interpretato la pièce teatrale e, mentre mi trovato a Londra, ho incontrato Peter Hall. E' stato un colpo di fulmine per tutti e due e così mi sono trasferita a vivere a Londra. Lo studio non voleva lasciarmi andare, ma per me la vita è sempre stata più importante della carriera e quando ho incontrato l'amore non ci ho pensato due volte. Ho interrotto il mio contratto e mi sono trasferita. In seguito mi sono accorta di aver commesso un errore perché all'epoca in Inghilterra le donne che lavoravano non erano ben viste. Poi l'arrivo dei Beatles e degli anni '60 ha rivoluzionato quel mondo, ma all'inizio Peter Hall era un regista teatrale con un grande avvenire. Peter non voleva che io proseguissi la mia carriera e non abbiamo mai lavorato insieme perché non accettava di avere con sé un'attrice che parlava inglese con accento francese. Così dopo qualche anno il nostro matrimonio è finito.Dopo Peter Hall, vi sono state altre persone importanti nella tua vita?
Certamente. Una persona che mi ha aiutato molto è stato Warren Beatty. Con lui ho vissuto una grande passione, inoltre ero molto vicina a Francois Truffaut. Lui era una persona estremamente appassionata e generosa, donava grosse somme ai bambini bisognosi e mi ha aiutato tantissimo. Truffaut ha proposto a Warren di interpretare Gangster Story. Truffaut non aveva tempo di realizzarlo, ma si era reso conto che lo script era ottimo così ha suggerito a Warren di cercare qualcuno che dirigesse il film e lui è volato a New York. Alla fine il film è stato diretto da Arthur Penn, ma io non vi ho recitato. Un'altra figura centrale, per me, è stata Jean Renoir. Per me lui è stato un secondo padre, mi ha dato tanti consigli e mi ha insegnato molte cose. Jean viveva in una casa di mattoni rossi che aveva disegnato lui stesso e che ora è stata demolita. Era una casa semplice e confortevole, calorosa. Il giardino entrava quasi nella casa che era piena di sculture e quadri. La regola presso i Renoir era che la casa fosse sempre aperta agli amici, giorno e notte. Il loro sentimento di famiglia era fortissimo e mi hanno accolta con grande calore. Con Renoir ero molto amica, lui avrebbe voluto fare un film con me anche se poi la cosa non è andata in porto, ma la sua memoria resterà sempre con me.