E' un film problematico e intenso, Poetry. Un'opera che Lee Chang-dong ha voluto dedicare alla poesia in senso lato, intesa come ricerca interiore più che come genere letterario. Una ricerca che può partire anche dal cinema, e che si esplicita qui in una pellicola rigorosa, che affronta senza timori, ma mai in modo compiaciuto, i temi della violenza, della malattia e della morte, oltre che quello dell'incomunicabilità generazionale. Il regista, dopo aver presentato il suo film all'ultimo Festival di Cannes (dove ha ricevuto il premio per la miglior sceneggiatura) è approdato a Roma per una breve ma interessante conferenza stampa, che precede l'uscita della pellicola (prevista per il 1 aprile) sul territorio nazionale.
La violenza di cui si ha sentore nel film è una caratteristica della società coreana? Le famiglie sono sempre così divise come quella che vediamo nel film?
Lee Chang-dong: No, e comunque queste caratteristiche fanno parte della società moderna, non solo di quella coreana. Gli eventi rappresentati nel film possono accadere ovunque, le differenze generazionali portano spesso incomunicabilità. E' difficile capire cosa pensino questi ragazzi, il nipote della protagonista guarda la tv e in lui vediamo un muro, un distacco. Guardando mio figlio, mi sono spesso chiesto cosa stesse pensando, e la stessa domanda se la fa la protagonista: con la differenza che lei è consapevole che il nipote ha commesso una grave colpa. Non sa più chi sia lui, è come se non lo conoscesse.
E' vero, noi ci diciamo tante parole, ma la poesia sta un po' morendo dappertutto. Io con questo film ho voluto raccontare soprattutto la poesia della vita, la ricerca della bellezza e delle verità nascoste dentro di noi.
Nella protagonista sembra esserci una sorta di resa, a un certo punto smette di cercare di capire il nipote, e forse è proprio lei a consegnarlo alla polizia. E' così?
Non sappiamo se sia stata davvero lei a farlo, è un elemento che ho volutamente lasciato in sospeso. Resta come un punto interrogativo su questa questione, volevo evitare di dare ad essa una risposta precisa ma lasciarla all'interpretazione dello spettatore. Ci sono molti film in cui la sofferenza del protagonista è più esplicita, più comunicativa: qui il personaggio di Mija soffre, ma i suoi sentimenti restano più sottintesi. Ci sono forse degli indizi che possono far pensare che lei abbia denunciato il nipote, ma nessuna sicurezza. E' lo spettatore che deve deciderlo.
Anche il finale è molto ambiguo, quasi sospeso...
Sì, è un finale volutamente aperto. Il film parla di una signora anziana che vuole scrivere poesie, che cerca la bellezza visibile ma si rende conto di poterla trovare solo dopo aver vissuto il lato oscuro dell'esistenza. Lei riesce a scrivere solo dopo aver abbracciato la sofferenza di un'altra persona, la ragazza morta sucida: in qualche modo, lei si è trasformata in quella ragazza, ne ha condiviso il destino.
In genere sono gli uomini a essere ritenuti più adatti ad affrontare casi del genere. In realtà, l'uomo tende a nascondere i problemi invece di affrontarli. La protagonista, nel film, ha una sensibilità diversa, anche a causa di un suo personale senso di colpa verso il nipote, che è come una ferita che si porta dentro.
Spesso si prova una specie di senso di colpa nello scrivere poesie, o nel definirsi poeti. Perché, secondo lei?
Io ho scritto molte poesie, prima di diventare un regista, e non provavo un vero e proprio senso di colpa. Piuttosto, mi sono sempre chiesto se quello che scrivevo potesse servire, potesse contribuire a cambiare il mondo. Ho iniziato a scrivere negli anni '80, in un periodo difficile per il mio paese, in cui al potere c'era la giunta militare: spesso mi sentivo inutile, era frustrante sapere che quello che facevo non sarebbe servito a cambiare le cose.