Una classica storia di resistenza e ricerca di riscatto declinata interamente al femminile: sullo sfondo un'anonima periferia della Capitale, protagoniste tre donne variamente indurite dalla vita. Con L'anima in pace, terzo film da regista di Ciro Formisano, napoletano classe 1976, siamo dalle parti del cinema di impegno civile, a cui l'autore non è nuovo: con L'Esodo nel 2017 (vincitore del Globo D'Oro) si occupava degli esodati del governo Monti, nel più recente L'altro buio in sala del 2022 affronta la crisi dell'industria cinematografica durante il lockdown dovuto alla pandemia di COVID-19, che con le sue strade vuote, le mascherine, l'obbligo di isolamento e il bulimico via vai di consegne a domicilio, fa da fil rouge anche questa volta. Un'opera con una sua identità, e alla quale vale la pena dare una chance, vista l'agguerrita competizione dei film in sala. L'anima in pace, che proviamo ad analizzare in questa recensione, è in sala dal 18 gennaio.
Tra realismo e racconto sociale
Quella de L'anima in pace è una storia semplice, reale come i personaggi che la popolano e ai quali non si fa fatica a credere grazie a una straordinaria quanto spontanea adesione al vero: Ciro Formisano li cesella uno a uno, dalle protagoniste indomite e fiere combattenti, fino ai ruoli maschili di contorno. Una girandola di figure umane al centro della quale il regista fa muovere un'eroina, la giovane Dora, 25 anni, un carattere all'apparenza ruvido e scostante, l'incedere da dura borgatara, capelli corti, felpe e scarpe da ginnastica. Non ha tempo da perdere Dora, ma un dannato bisogno di correre per guadagnare qualche soldo, così a bordo di un furgone bianco sgobba tutto il giorno consegnando la spesa a domicilio in una Roma svuotata dalle restrizioni del lockdown del 2020. Una routine fatta di carichi e scarichi, pesanti casse d'acqua, pacchi di viveri e signore insofferenti, non sempre simpatiche.
Una volta finita l'emergenza pandemica, ci sarebbe il sogno: quello di diventare estetista e fare le unghie alle signore, che "entrano casalinghe ed escono zoccole", ma per ora quel lavoro così sfiancante le serve per riuscire a far tornare a casa i suoi fratellini gemelli, Massimo e Nunzio, affidati temporaneamente ad un'altra famiglia dopo che la madre Lia, uscita da poco di prigione dove è finita per aver cercato di sparare un marito violento, è stata ritenuta inadatta a prendersi cura di loro. Dora vive con sua madre in un quartiere periferico della Capitale in casa della zia, che le ospita in attesa che il giudice si pronunci sulla custodia dei piccoli; Lia è una madre bambina, svampita, scombinata, una donna che non "ha respirato per 25 anni". Non ha un lavoro, spende quasi tutti i poveri risparmi messi con fatica da parte dalla figlia e si trastulla tra amori occasionali, scatti da postare sui social e quisquiglie con la sorella che inizia a mal sopportarne la presenza. I soldi non bastano, e Dora cerca di arrotondare facendo la pusher per Yuri, il boss della zona, con cui ha anche una relazione; ma un giorno incontra Andrea, uno specializzando in medicina, giovane di buona famiglia dolce e sensibile, figlio di una ex ballerina e uno stimato primario. A lui toccherà spronarla e mostrarle che un altro destino è possibile, basta volerlo. O forse no, a volte non basta neanche volerlo fortemente.
Interpretazioni credibili, tra rigore ed essenzialità
Formisano si affida a una regia asciutta e misurata, lavora per sottrazione e sceglie il linguaggio del realismo; il risultato è un racconto sociale, di lotta di classe ("un cane non può diventare un gatto"), di sopravvivenza e rassegnazione proletaria, perché Dora non ha nessuna voglia di "essere qualcosa di più di quello che è" e si limita almeno per ora ad accettare la propria vita di abusi, corse, violenze. Del resto "ci hanno dato 'sta vita senza libretto di istruzione", le ricorda mamma Lia, e a volte tocca solo accoglierla così com'è, perché non è sempre facile cambiare direzione quando "si cerca di superare le barriere invisibili e invalicabili dei sobborghi".
Certo non mancano i difetti, in parte dovuti a limiti di budget, come il colpo di scena tirato via in maniera affrettata a ridosso del finale o qualche didascalismo di troppo disseminato qua e là. Nel complesso L'anima in pace ha il pregio di non scadere mai nel patetico, forte di una scrittura lucida e coerente e di interpretazioni giocate sul filo dell'essenzialità e del rigore: da Donatella Finocchiaro, così stralunata, dirompente e straziata allo stesso tempo, alla vera rivelazione del film, l'esordiente Livia Antonelli nei panni di Dora, l'inquieta protagonista a cui la vita ha già chiesto tanto. E che chissà... un giorno, magari, da qualche parte, aprirà il suo negozio di unghie per signore.
Conclusioni
Come ampiamente spiegato nella recensione del film, L’anima in pace si rivela opera coraggiosa e originale alla quale vale la pena dare una chance. Ha la forza del cinema di impegno civile e la tempra del racconto sociale, una storia di resistenza declinato interamente al femminile, con protagoniste tre donne variamente indurite dalla vita. C’è la lotta di classe e l’ineluttabilità del destino, c’è il desiderio di riscatto e le barriere invalicabili dei sobborghi. Livia Antonelli, qui al suo debutto, vale l’intero film.
Perché ci piace
- Un cinema di impegno civile con una sua identità molto chiara.
- Una storia di resistenza tutta al femminile tra desiderio di riscatto e lotta di classe.
- Il piglio realista del racconto.
- Interpretazioni credibili e giocate sul filo dell’essenzialità e del rigore.
Cosa non va
- Il film non è immune a qualche didascalismo di tropo.
- La scena poco credibile e affrettata a ridosso del finale.