Dopo aver portato sul grande schermo un romanzo del premio Nobel Imre Kertesz, quel Senza destino apprezzato da molti che raccontava l'incubo di un bambino in un campo di concentramento, Lajos Koltai ci riprova con la regia e adatta ancora per il cinema le pagine di un libro. Stavolta è una storia al femminile, un valzer di donne che si conoscono svelando i propri segreti al capezzale di una madre malata allo stadio terminale. Amori perduti, insoddisfazioni personali, morti, delicate gravidanze da affrontare: questi alcuni dei temi affrontati in Un amore senza tempo, tratto dal romanzo di Susan Minot che scrive la sceneggiatura insieme a Michael Cunningham. Lajos Koltai, che ricordiamo come direttore della fotografia per numerosi film e candidato al premio Oscar per Malena di Giuseppe Tornatore, incontra la stampa a Roma per presentare il film che approderà nelle nostre sale il 24 aprile, in circa cento copie distribuite da Medusa.
Lajos Koltai, ancora un romanzo per la sua seconda regia. Come si è svolto il lavoro di adattamento?
Lajos Koltai: Quando sono stato contattato per questo progetto, il copione era già pronto. I produttori avevano visto Senza destino, il mio film precedente, e mi hanno telefonato per propormi la regia di Un amore senza tempo. Loro erano in sei dall'altro lato dalla cornetta e io ho fatto un lungo monologo di circa venti minuti, durante i quali ho cercato di spiegar loro cosa volevo dire con questo film e sono rimasti molto colpiti. Quando il progetto prendeva consistenza mi hanno chiesto se volevo cambiare qualcosa della sceneggiatura, ma a me piaceva così com'era perché trovo che Michael Cunningham, l'autore della sceneggiatura, sia una persona molto capace, che sa come affrontare l'argomento tempo in un film. L'unica cosa che ho voluto aggiungere, andando ad attingere alla mia esperienza familiare, è il rapporto conflittuale tra le due sorelle che sono sempre in competizione tra loro. Nel libro c'erano più di quaranta personaggi, con tanti matrimoni e tanti bambini, ed era quindi impossibile trasformare un romanzo così strutturato in un film. L'autrice Susan Minot ci aveva provato in passato, ma non c'era riuscita. Cunningham le ha chiesto di poter sfrondare molto il suo romanzo e lei si è detta d'accordo a condizione che fosse fatto salvo lo spirito della storia che lei aveva scritto.
Nel film ci sono tante donne che si raccontano. Com'è stato per lei, uomo, parlare di questo universo femminile?
Mi è stata fatta spesso questa domanda, ma in realtà il film non parla solo di donne. Per esempio, c'è una decisione molto importante che è quella della figlia incinta che non sa come dire a suo marito della gravidanza e se riuscirà ad essere una buona madre. E' un film che parla di quello che sta succedendo nel mondo oggi, di questa insicurezza generale che si avverte. Inoltre, ci sono due personaggi maschili molto importanti. Da una parte c'è Buddy, un ragazzo che non è ancora pronto ad affrontare sé stesso, non sa cosa fare, non ha avuto dalla famiglia nessun aiuto sul passo giusto da compiere, perché sono tutti concentrati su sé stessi e non si accorgono dei tormenti interiori del ragazzo. Harris invece è un uomo già realizzato, si è elevato da una condizione sociale disagiata ed è diventato medico, e quando torna al suo paese d'origine tutti lo riconoscono, riesce ad aprirsi e a guardare le stelle chiamandole per nome.
Il suo cast è ricco di nomi importanti. Tra questi, c'è un'intensa Vanessa Redgrave che interpreta il ruolo della donna malata che ricorda il suo passato. Com'è stata la collaborazione con lei?
E' stato incredibile avere tutte queste grandi attrici. Ho avuto il primo incontro con Vanessa Redgrave a Londra, in un hotel dall'atmosfera intima. Quando sono arrivato, mi si è avvicinata, si è presentata e mi ha condotto per mano a una sedia accanto alla sua. Mi ha detto che aveva visto Senza destino e ne era rimasta entusiasta, perciò ha voluto sapere tutti i dettagli sul film, e in particolare su come ho diretto gli attori e il ragazzino protagonista. Mi ha lasciato senza parole il suo modo di fare, una persona di quel calibro che immediatamente diventava mia amica che mi chiedeva se davvero volevo che fosse lei a interpretare il film. Tra noi si è creata subito una certa complicità e sembravamo fratello e sorella che si fanno una serie di confidenze dopo tanto tempo. Poi mi ha detto: "Sai Lajos, ho letto il copione e penso che il personaggio non abbia nulla a che fare con me, ma vuoi sapere una cosa? Voglio recitare per te e quindi accetto la parte." E' stato molto commovente per me, delle parole che mi hanno toccato profondamente. Abbiamo cercato di scavare nel personaggio, guardando al suo dolore, alla malattia e a quanto di questo dolore avrebbe dovuto mostrare, e non era una cosa facile visto che anche lei è stata toccata in prima persona da una malattia.
E' sempre più convinto di questo passaggio dalla direzione della fotografia alla regia?
Non è stato un passaggio poi così critico, mi sono semplicemente spostato dal lato al centro, dietro la macchina da presa. Ho sempre collaborato con grandi registi, tra i quali Istvan Szabo e Giuseppe Tornatore, ho fatto più di settanta film in qualsiasi parte del mondo come direttore della fotografia, e molte persone mi chiedevano se prima o poi sarei passato a dirigere un film. Io rispondevo che mi sarebbe piaciuto, ma ero in attesa del materiale giusto per la prima regia. La decisione del mio debutto dietro la macchina da presa in realtà è venuta dall'autore di Senza destino, il premio Nobel Imre Kertesz, che si è rivolto a me per chiedermi di trasformare il suo libro in un film. Fare un film sull'Olocausto come quelli che già c'erano non aveva senso, perciò ho cercato una prospettiva completamente diversa, ma d'altra parte la storia era lineare, con un inizio, un centro e una fine. Ho cercato di partire da ciò che era dentro al piccolo protagonista, dal suo mondo, e mi sono lasciato guidare dai sentimenti che questi provava.
Come ha lavorato sull'immagine, sul colore, sull'elaborazione temporale del film?
Per me è estremamente importante l'aspetto visivo. Io creavo l'immagine, la scena, e poi passavo la macchina da presa al direttore della fotografia, Gyula Pados, e lui impostava le luci. Per il messaggio che volevo far passare era molto importante che io facessi questo lavoro. Per quanto riguarda il tempo, si parla del ritmo del film e dei segreti da svelare. Ho deciso di seguire i ricordi della protagonista, del suo modo di viverli, materializzandoli accanto al suo letto.