Lacrime nel deserto
La fortunata stagione del documentario al cinema prosegue con il docudrama di due giovani registi, l'italiano Luigi Falorni e la mongola Byambasuren Davaa, volati nel cuore del Deserto del Gobi per raccontarci La storia del cammello che piange, testimonianza di un miracolo e racconto di speranza. Dopo essere stato definitivamente sdoganato dalle pellicole militanti di Michael Moore e dal successo dei più recenti The Corporation, Super Size Me e The Take, il genere documentario sembra ormai avviato alla conquista di fasce sempre più nutrite di pubblico. E' ancora una volta la Fandango, come già per i tre film citati sopra, a distribuire in Italia un lavoro interessante e terribilmente affascinante, ma questa volta niente esperimenti, niente accuse, nessuna pretesa di mostrare verità nascoste, solo il gusto di raccontare una storia semplice, dal sapore dolce e sconosciuto, che ci porta lì dove non siamo mai stati, in una cultura che non ci è mai stata presentata, per offrirci un'esperienza coinvolgente e toccante.
La storia è quella di una famiglia di pastori nomadi alle prese con un cammello che, dopo aver partorito con grande sofferenza, rifiuta il suo piccolo, nato albino. Il cucciolo piange ed ogni volta che si avvicina alla mammella della madre per succhiarne il latte e chiedere amore viene scacciato in malo modo. I pastori, dopo aver tentato, senza fortuna, di nutrirlo artificialmente, chiedono a due dei loro bambini, Ugna e Dude, di raggiungere il paese più vicino per cercare un musicista. Secondo un vecchio rituale, infatti, solo la potenza della musica risveglierà nell'animale l'istinto materno e gli permetterà di accettare ed amare il suo cucciolo. Un film lontano quindi dalla obsoleta impostazione naturalista del documentario classico, che si avvale dei meccanismi drammaturgici della fiction per raccontare una vicenda che ha un preciso sviluppo, con un inizio, un centro e una fine. Falorni e la Davaa non si limitano a guardare la vita dei pastori e i loro reiterati gesti elementari, ma abbozzano una sceneggiatura "impossibile" che la fortuna li aiuta a filmare.
Immersi nei colori ipnotici del deserto che, col suo paesaggio arido e le terribili tempeste di sabbia, ricopre un ruolo da protagonista nel film, veniamo a contatto con quattro generazioni della stessa famiglia, una piccola tribù che fuori dalle capanne abbraccia il proprio bestiame, considerandolo una loro estensione. Ed ecco allora che il dramma del piccolo cammello che piange perché rifiutato diventa anche quello dell'intera famiglia, che non può accettare l'idea che uno dei suoi componenti soffra e rischi di morire senza affetto. Così, tutti si prodigano affinché gli occhi dei due cammelli si incontrino e si riconoscano e dove non arriva la natura interviene la musica, il canto della giovane Odgoo accompagnato dal suono arcaico del violino che imperla di lacrime lo sguardo spento di una cattiva madre. Storia semplice, nella quale è facile riconoscere la rappresentazione della nostra condizione di esseri umani soli al mondo, incapaci di vivere senza amore e protezione. E nasce naturale anche una considerazione sulla nostra società che abbandona i suoi figli e permette alle madri incoscienti e disperate di gettare i neonati nei cassonetti, senza riuscire a fornir loro appoggio e solidarietà, quella che i nomadi mongoli offrono, senza distinzioni, ad umani ed animali.
Con il viaggio dei due bambini nel deserto, che scoprono in paese balocchi e televisione, i due registi trovano il tempo di riflettere, senza puntare il dito, su quella civilizzazione che si sta avvicinando in maniera minacciosa a culture millenarie che rischiano di venire inghiottite. Il piccolo Ugna, abituato a giocare con i sassolini, non può che guardare con sguardo goloso le meraviglie della tecnologia, e quando alla fine riesce a farsi comprare un televisore, l'immagine di suo fratello che tenta di indirizzare al meglio l'enorme antenna parabolica in mezzo al deserto ci da l'idea di quanto la distanza tra mondi all'apparenza così lontani si stia facendo sempre più labile.