Il regista lo definisce "un film in trasferta", non solo perché è stato girato tra l'Uruguay e la periferia romana, ma anche per i tanti rischi che si portava dietro, "primo fra tutti quello di usare toni a me non congeniali, era una grande sfida, e poteva essere anche un disastro, invece credo sia un film degno di cui sono orgoglioso". E fa bene a esserlo Vincenzo Marra, che con La volta buona, presentato ad Alice nella Città, sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma 2019, dimostra di essere come sempre un raffinato osservatore del reale. Questa volta il regista de L'ora di punta o La prima luce indaga il sottobosco del mercato di calciatori in erba, poco più che bambini, spesso stranieri provenienti da situazioni di povertà estrema, portati in Italia con la promessa del calcio e poi venduti al migliore offerente e abbandonati al proprio destino, che non è sempre come gli era stato promesso.
Il lato oscuro del pallone indagato attraverso la storia di Bartolomeo, squattrinato e cinico procuratore sportivo; dopo aver sperperato tutto con il vizio del gioco che gli ha fatto perdere moglie e figlia, vive ormai di piccoli espedienti e aspetta il colpo di fortuna. La fatidica volta buona sembra arrivare con una telefonata dall'Uruguay su un ragazzino, Pablito, che è un vero fenomeno, un fuoriclasse. La sfida sarà portarlo in Italia e trovare una squadra che lo compri, per Bartolomeo sarà l'occasione del riscatto, per Pablito la possibilità di una vita migliore.
L'idea del western, Monicelli e l'incontro con il piccolo Ramiro Garcia
Con La volta buona Marra ha l'opportunità di raccontare temi complessi senza rinunciare all'uso di metafore e allegorie, punti saldi del suo cinema, ma il film, confessa, "nasce dalla volontà di fare qualcosa di diverso dai miei lavori precedenti e dalla necessità di trovare stimoli differenti", e soprattutto da una chiacchierata con Mario Monicelli. "Mi citava spesso, - spiega - ne ero lusingato, ma mi sembrava una cosa strana e allora gli chiesi perché; lui mi rispose di aver guardato i miei documentari dedicati a Napoli dove c'è un'ironia forte e graffiante, e mi disse: 'Secondo me hai un altro braccio, che un giorno userai anche nei film di finzione'. Quando morì mi venne l'idea e il bisogno di raccontare questa storia, un omaggio a quello che mi aveva detto, una sensazione, un'emozione. L'ho scritta di getto nei giorni immediatamente successivi, poi l'ho messa in un cassetto perché avevo un po' di ritrosia e lì è rimasta per diverso tempo". L'idea di partenza era quella del western "con cowboy sporchi e senza famiglia disposti a tutto pur di trovare la pepita d'oro. Mi sono chiesto come raccontare la pepita d'oro nella società moderna e così ho deciso di partire dalla cosa più comune e spendibile del mondo, il calcio".
Il film è frutto di un lungo lavoro di documentazione in cui il regista ha incontrato diversi procuratori e calciatori in erba "spesso latino americani che vivono qui. Mi hanno raccontato molti aneddoti, che sono dinamiche comuni in un certo tipo di sottobosco, per esempio quando ci si rende conto che la pepita d'oro non è così d'oro la si abbandona. Capita quindi che molti ragazzi fatti arrivare in Italia con la promessa del calcio si ritrovino clandestini".
Ma la scoperta più straordinaria è stata quella del piccolo Ramiro Garcia, interprete di Pablito: "Cercarlo è stata in un'impresa titanica, dovevo trovare in Italia e in tempi strettissimi un bambino sud americano, che fosse bravo a recitare e bravissimo a giocare a calcio. Poi è apparso Ramiro grazie a un amico, che ha una società di giovani calciatori; quando ci siamo incontrati mi ha raccontato di vivere una vita molto simile a quella che avevo immaginato. Era stato portato a Roma per giocare a pallone, veniva da Rosario, la città di Messi e viveva in una casa insieme ad altri ragazzini. In quel momento tutti i miei dubbi sulla costruzione della storia sono stati dissipati". Marra lo aveva già scelto vedendolo da lontano, "poi abbiamo acceso la telecamera e ha detto le battute del film come se fosse naturale".
Massimo Ghini e il ricordo della vecchia commedia italiana
A interpretare Bartolomeo è Massimo Ghini in un ruolo per certi versi inedito, una maschera cinica ma di profonda e struggente umanità. A convincerlo è stata la sceneggiatura: "Sin dalla prima lettura mi ha fatto tornare in mente l'idea di un copione scritto da Luciano Vincenzoni per Dino Risi. Ho ritrovato l'aria della grande commedia italiana, come Il sorpasso o La grande guerra, la commedia che il cinema italiano non riesce a recuperare. - spiega - Da quel punto di vista questa storia mi sembrava una novità". Poi aggiunge: "Marra è un pasdaran della realtà, io invece credo che il cinema sia fatto principalmente di finzione, su questo punto abbiamo trovato un equilibrio discutendone". E così è anche arrivato a dare un'anima e un volto al suo personaggio: "Bartolomeo rappresenta all'infimo grado quel mondo assurdo e molto violento quasi da gladiatore, un impiccio di soldi e movimenti più o meno chiari". Di lui gli è piaciuto il cinismo, tanto che "se avessi potuto lo avrei reso anche più cinico. È senza pietà, la pietas esce fuori solo alla fine, nel momento in cui i fatti aprono il cuore di un uomo finito, completamente distrutto", che il regista dice di aver costruito partendo dall' "incapacità della sopportabilità. Mi sono accorto che oggi il sentimento molto umano e primordiale della frustrazione è diventato mostruoso. Bartolomeo è una persona che a sessant'anni aspetta ancora la volta buona, che deve affrancarsi e dimostrare di essere diverso da quello che è".
Non è la prima volta che a Ghini capita di essere il cattivo della storia: "Sono Bartolomeo da anni. Il sottosegretario Valenzani che ho interpretato in Compagni di scuola è la rappresentazione del cinismo umano in assoluto e per anni ho combattuto per scrollarmelo di dosso, ho dovuto fare il Papa buono per compensare la sua cattiveria. Per una legge strana del nostro ambiente mi tocca quasi sempre fare il fascista, ho fatto due volte Galeazzo Ciano! Forse perché ho un fisico da fascista", scherza. Il cinismo però lo diverte molto: "I buoni mi annoiano. A essere buono ci penso nella vita, la rappresentazione è da sempre lo spazio e il luogo di ciò che non potresti altrimenti fare, pensate a Gian Maria Volontè".