La visione mancante
Mistica, guaritrice, letterata, accentratrice di potere, o semplicemente una donna estremamente bisognosa d'amore? Sono tante le facce di Hildegard von Bingen, una delle figure religiose più influenti del Medioevo. Fin dall'età di tre anni la donna fu vittima di strane visioni, che ha sempre sostenuto provenissero direttamente da Dio. Inviata dai suoi genitori al convento benedettino di Disibodenberg all'età di otto anni, Hildegard intraprese il noviziato assieme alla badessa Jutta di Sponheim, che diverrà per lei come una seconda madre. Grazie alle sue incredibili visioni, che Hildegard trascrive in un libro dopo aver ricevuto l'approvazione del Papa, il convento accresce la sua fama. Il potere che sta accumulando von Bingen, nel frattempo divenuta badessa, comincia dunque a infastidire le tradizionali gerarchie ecclesiastiche, alimentando così una lotta di potere tra l'ordine maschile e quello femminile in cui è diviso il monastero. Hildegard insiste con caparbietà per edificare un proprio monastero a Rupertsberg (luogo suggeritole durante le sue visioni), e alla fine riuscirà ad avere la meglio grazie anche all'appoggio del papato.
Facile capire che una regista da sempre sensibile alle questioni femminili come Margarethe Von Trotta si sia affascinata a un personaggio che è oggi considerato una vera e propria icona femminista. L'autrice tedesca, nel tracciare l'agiografia di questa insolita figura religiosa, pone proprio l'accento sulla straordinaria emancipazione di Hildegard in lotta contro le fazioni più tradizionaliste della Chiesa. Alla fine saranno proprio i centri di potere dell'epoca, incarnati tutti da figure maschili - dall'abate del monastero, all'imperatore Federico Barbarossa - a dover scendere a patti con lei. Hildegard si farà portatrice di una visione avanguardistica del cristianesimo, che dà per la prima volta risalto ai valori della femminilità e della bellezza all'interno delle istituzioni religiose. Una posizione al limite dell'eresia, a giudicare dalle polemiche che subì la badessa per aver concesso alle proprie consorelle di vestire con ornamenti e gioielli e di tenere i capelli sciolti.Ma Vision nelle intenzioni della Von Trotta vorrebbe anche essere la storia di una donna cui le è sempre stato negato l'amore: prima quello della madre naturale, poi quello dell'istitutrice Jutta (morta prematuramente) e, infine, quello della sua discepola Richardis. Hildegard sviluppa nei confronti della ragazza sua allieva un amore puro e intensissimo, tanto che l'allontanamento di Richardis susciterà in lei delle reazioni violente al limite della follia. Eppure non c'è nulla di morboso in questa relazione, tenera e delicata, che si instaura tra le due consorelle.
Vision si offre, dunque, agli spettatori intrecciando diversi temi e spunti di riflessione, ma forse a venire trascurato è proprio l'aspetto che dà il titolo al film, vale a dire quello visivo. La regista, infatti, decide di non rappresentare per immagini il contenuto delle visioni di Hildegard, limitandosi unicamente a una loro descrizione verbale. La scansione narrativa è, inoltre, affidata unicamente ai dialoghi, con il risultato che numerose scene (spesso girate in campo/controcampo) eccedono in verbosità. È come se Margarethe Von Trotta non fosse riuscita a trovare un'adeguata modalità di rappresentazione cinematografica per i temi affrontati, che rimangono senza dubbio d'interesse. Il risultato è un film riuscito solo a metà, in cui gran parte del merito è da attribuire all'interpretazione ricca di sfumature di Barbara Sukowa, che qui rinnova il suo sodalizio ormai di lunga data con la regista.