La via cinese al kolossal
John Woo è tornato in Asia. Già una premessa del genere potrebbe bastare a conferire più di un motivo di interesse a questo La battaglia dei Tre Regni, dopo la parabola discendente espressa dal regista con il suo passaggio ad Hollywood e il fondato sospetto di un inaridimento, creativo e soprattutto stilistico, del suo cinema. Le prime voci sul film, che parlavano della più costosa produzione del cinema asiatico, rilanciate dal regista che aveva dichiarato l'intenzione di girare "Il gladiatore in versione cinese", hanno legittimamente aumentato la curiosità, malgrado l'abbandono di Chow Yun-Fat (che inizialmente doveva avere il ruolo di protagonista) e l'annuncio che, delle oltre quattro ore di pellicola che sarebbero uscite per il mercato asiatico (divise in due film distinti) il resto del mondo avrebbe visto una versione sintetizzata di circa due ore e mezza. Il film è ispirato a un classico della letteratura cinese, avente per oggetto una fondamentale battaglia combattuta nel III secolo d.C, altrettanto nota in Asia di quanto lo siano per noi occidentali battaglie come quella delle Termopili o di Poitiers. La storia prende le mosse dal tentativo del signore della guerra Cao Cao di estendere il suo dominio dal nord al sud del paese, e dall'alleanza formata dai sovrani Sun Quan e Liu Bei allo scopo di contrastare le sue preponderanti forze.
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E il regista di The Killer sembra essere, al di là della sua quasi novità al genere (per trovare un esempio, nel cinema di Woo, di una pellicola con ambientazioni simili, bisogna risalire addirittura al 1979 e al suo Last Hurrah for Chivalry) interprete ideale per questa nuova tendenza. Lungi dall'essere l'anonimo shooter che era ormai diventato a Hollywood, Woo gestisce con sicurezza e padronanza tecnica il materiale a sua disposizione, trovando spazio per i suoi vezzi autoriali (sì, le immancabili colombe ci sono anche qui, ma stavolta hanno ben più che un ruolo decorativo) e riuscendo a infilare anche una gustosa citazione dal suo Hard Boiled, uno dei film più citati quando si parla del suo periodo ad Hong Kong. Le limitazioni imposte dal genere non escludono la presenza di sequenze registicamente di gran classe, come un bel duetto musicale tra Tony Leung e Takeshi Kaneshiro nei minuti iniziali, e una fondamentale scena incentrata sulla cerimonia del tè nel finale. Il resto è puro John Woo, sia pure in una versione smaliziata e in una dimensione da kolossal per lui finora inedita: personaggi ben delineati e portatori di sentimenti forti e basilari (l'onore, il sacrificio, l'amicizia virile), situazioni archetipiche tanto da diventare astrazione pura, un melò tanto spinto da strappare sorrisi (di quelli che però mal celano una sostanziale ammirazione) allo spettatore occidentale. Apprezzabile (particolare questo piuttosto insolito per i film del regista) il personaggio interpretato da Vicky Zhao, donna combattiva e intelligente che sarà chiave di volta per lo svolgimento della trama. I restanti attori (dal sempre bravo Tony Leung a un Takeshi Kaneshiro che sembra fare il verso, in più di una scena, al mai dimenticato Chow Yun-Fat) sembrano entrare con naturalezza nei rispettivi ruoli,
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Si può discutere sull'opportunità o meno di far uscire il film in questa veste (espungendone quasi la metà) per il pubblico occidentale, sacrificando sicuramente molto sia a livello narrativo che puramente visivo: ma va sottolineato come l'operazione di sintesi (che, è bene ricordarlo, è stata supervisionata e approvata dallo stesso regista) venga portata avanti qui in modo sostanzialmente corretto, risultandone alla fine un film compatto e coerente. E poi, non si può non rimanere ammirati dalla visione in grande espressa dal regista, dalla sua strabordante idea di kolossal che fino a qualche anno fa risultava impensabile in contesti diversi da quello hollywoodiano. Insomma, ci sembra di essere di fronte a un regista che, sia pure in questa nuova dimensione produttiva, appare pienamente ritrovato. L'ovvio auspicio è quello di non perderlo di nuovo.
Movieplayer.it
4.0/5