La vergogna di essere italiani
Che un Paese sia governato tramite leggi giuste, che difendano i diritti e, prima ancora, la dignità dei cittadini, è quanto di più basilare ci si aspetta, in una cultura che ama definirsi progressista e democratica. Ma, prima ancora che dalle istituzioni, il valore della vita umana, del rispetto per i nostri simili, della comprensione e della disponibilità nei confronti di chi ha bisogno di aiuto, deve derivare dal nostro sentire personale, dalla nostra intima moralità. Se non si vuole essere cittadini eticamente responsabili, non solo non si sarà in grado di pretendere di vivere in un mondo il più possibile equo, ma non si sarà nemmeno in grado di cogliere la differenza tra come stanno le cose e come invece dovrebbero stare e, in ultima analisi, tra il bene e il male. E' difficile, e doloroso, da ammettere, eppure sembra che noi italiani non siamo esenti da questo tipo di apatia intellettuale e morale: anzi, ne siamo uno degli esempi più palesi, a guardare la storia recente.
Anche se volessimo far finta di nulla e nascondere la testa sotto la sabbia pur di non ammettere le nostre colpe, ci hanno pensato i registi Andrea Segre e Stefano Liberti a sbattercele in faccia, in tutta la loro imbarazzante evidenza. I due autori hanno infatti documentato le storie di alcuni profughi eritrei e somali, ora accolti in un campo allestito dall'UNHCR lungo il confine tra Tunisia e Libia ma che, giusto tre anni fa, tentavano vanamente di raggiungere le coste italiane, per sfuggire alle vessazioni del governo libico, responsabile di arresti sommari, torture e violenze nei loro confronti. L'Italia era la speranza, una meta sognata e cercata con ogni sacrificio (perché si sa, i traghettatori non si fanno facilmente impietosire, e non lavorano mai gratis) per assicurarsi un futuro dignitoso, con una casa, un lavoro, la prospettiva di felicità e sicurezza per i propri figli. Il viaggio sarebbe stato duro, certo, ma una volta là i rifugiati sarebbero stati accolti, curati, messi in condizione di fare parte di una società finalmente libera: a sentire i racconti dei protagonisti di Segre e Liberti, tutto sembrava andare proprio in questa direzione. Quando, la loro imbarcazione in panne, i migranti sono stati soccorsi da una nave italiana, il primo contatto è stato rassicurante: le soldatesse aiutavano le donne, specie quelle incinte, si mostravano rassicuranti e gentili, c'erano promesse di adeguata assistenza medica, di un pronto trasferimento a Roma. Poi, la telefonata, e il repentino dietrofront dei militari, ora aggressivi, pronti ad alzare le mani (e i bastoni, e i taser) su chi non si metteva in riga, zitto e buono, durante il viaggio. Si, ma il viaggio verso dove? Verso l'Italia, comunque, si credeva all'inizio, ma poi quel viaggio diventava troppo lungo, e il paesaggio sembrava troppo familiare: con il trasferimento su una nave libica, la realtà si fa inequivocabile, si sta tornando indietro. Gli uomini e le donne intervistati da Segre e Liberti sono infatti le prime vittime del patto stretto dalla virtuosa coppia Gheddafi-Berlusconi, di cui il tanto (e giustamente) biasimato decreto legge sui respingimenti in mare dei migranti è stato lo strumento attuativo. Certo, la prospettiva da cui i registi ritraggono i fatti è quella delle vittime, ma a fare da contraddittorio bastano pochi spezzoni di interviste dell'epoca. Come quelle in cui Maroni, ribadendo il rispetto che il nostro Paese nutriva per le normative internazionali, sancisce l'assoluta ammissibilità etica e giuridica del suo operato, o Berlusconi liquida i dubbi dei più umani tra i giornalisti dichiarando che i migranti respinti non sono rifugiati politici, ma potenziali delinquenti reclutati all'uopo da non ben precisate organizzazioni criminali, ansiose di venire a spadroneggiare in Italia. Ma, se non bastassero queste manifestazioni di ottusità a palesare la reale entità dei fatti, Segre e Liberti danno conto anche del processo, intentato all'Italia da un gruppo di immigrati somali ed eritrei, presso la Corte Europea, risoltosi in una condanna del nostro Paese, con tanto di risarcimento per ogni ricorrente. Ma l'Italia non ha da preoccuparsi troppo per il proprio portafoglio, dato che, dei migranti della seconda ondata, quelli che hanno ripreso il mare dopo il primo respingimento, ne sono sopravvissuti davvero un numero irrisorio.Il sentimento prevalente dello spettatore del film non può che essere la vergogna. C'è anche la rabbia, certo, e il blando, infine vano tentativo di dirsi che in fondo non siamo noi quelli da biasimare, perché Berlusconi non lo abbiamo votato, e magari, addirittura, abbiamo anche manifestato contro di lui. Indubbiamente ci sono alcuni più responsabili di altri del ritorno in Libia (una Libia che pochi mesi dopo venne bombardata dalla NATO, non bastassero la prigionia e la tortura) e della morte di centinaia di persone, ma la verità è che siamo tutti noi ad aver permesso quello stato di cose, ed è su tutti noi che grava la colpa di quegli atti. Non possiamo nasconderci dietro i problemi quotidiani, l'impossibilità di dare il peso appropriato a ogni causa, la necessità di semplificare, spesso tramite una bella dose di pregiudizio, l'opinione che abbiamo del mondo: fare finta di niente di fronte a questioni che sembrano non riguardarci vuol dire non soltanto tradire la responsabilità che abbiamo nei confronti di noi stessi e della nostra società, quella che ci deriva (o dovrebbe derivarci) dalla nostra cultura e dalla nostra storia, che tanto amiamo sbandierare, ridicoli, al momento meno opportuno, ma vuol dire mettersi nella condizione di subire, un giorno non tanto lontano, la stessa ingiustizia, senza neanche ammettere che ce lo siamo meritato.
Movieplayer.it
3.0/5