Recensione Nel nome del male (2009)

La miniserie Sky riesce a scavare in profondità in questioni che vanno al di là del pretesto da cui parte, intrigando e senza mai inciampare nella noia, con una confezione per una volta davvero ben curata.

La solitudine della provincia

Con le produzioni Sky, la fiction italiana sembra aver fatto un notevole passo in avanti. Già le serie Quo Vadis, Baby? e Romanzo criminale - La serie avevano operato un netto smarcamento rispetto alla qualità consueta dei prodotti per il piccolo schermo, lavorando sul genere, sull'innovazione del linguaggio e sull'allargamento dei contenuti. Quello che va identificandosi come un vero e proprio progetto di 'riforma' della tanto vituperata fiction italiana prosegue ora con Nel nome del male, una miniserie in due puntate che confonde e sposta nuovamente i confini. L'ambiente fisico è stavolta quello del Nord-Est, la provincia desolante dominata da un'inedia dalla quale scappare in un modo o nell'altro. Quello scelto da un giovane ragazzo, all'apparenza il più normale dei normalini, è un giro pericoloso nella ragnatela del satanismo, pronta ad ingoiarlo per farlo sbranare dall'animale di turno.

Lo spunto di partenza continua ad essere la cronaca nera, ma la sceneggiatrice Paola Barbato fa attenzione a non indirizzare la vicenda verso il sensazionalismo, rimanendo legata ai personaggi e in particolare a un rapporto 'spezzato' tra il padre spezzato che fa da protagonista (e ha il volto intenso di un inedito Fabrizio Bentivoglio) e suo figlio scomparso, rimasto intrappolato in un brutto affare difficile da risolvere. La brava sceneggiatrice milanese, tra gli autori del fumetto Dylan Dog, fa del suo thriller un'occasione per riflettere sulla famiglia e sul suo grande inganno, sulla vacuità del benessere che non offre nessun paracadute a chi si perde e crolla, sulla difficoltà di rivelarsi, di condividere il proprio malessere, sulla solitudine. Perché soprattutto di solitudine si parla in Nel nome del male: le sette sataniche sono solo un esempio degli sbocchi malsani che trova l'insofferenza dei più fragili, la loro difficoltà di sentirsi accettati e compresi nel reale mondo banale.
Primo prodotto italiano ad essere girato in HD Red, la miniserie Sky trova a dargli corpo la verve di Alex Infascelli che lavora di fino su sensazioni, atmosfere, soluzioni registiche ammalianti e perfino originali nella gabbia del tubo catodico. Si sarebbe prestato facilmente a un trattamento estremo e scioccante, e invece il tema viene trattato con oculatezza, evitando di strafare col fascino del cruento, anche grazie a un gruppo di attori protagonisti che da veri fuoriclasse (sempre perfetta Michela Cescon) non scivolano mai fuori tono. Nonostante qualche semplificazione eccessiva relativa ai personaggi di contorno e un paio di passaggi a vuoto che dilatano eccessivamente i tempi, Nel nome del male riesce a scavare in profondità in questioni che vanno al di là del pretesto da cui parte, intrigando e senza mai inciampare nella noia, con una confezione per una volta davvero ben curata. Il nostro televisore trova così un buon motivo per essere acceso.