L'esperienza delle radio libere può essere considerata, a ragione, un pezzo di storia della cultura popolare del nostro paese. Il fiorire di emittenti private conseguente alla "liberazione" dell'etere, sancita dalla Corte Costituzionale nel 1976, si intrecciò con una serie di fenomeni politici, sociali, di costume, che stavano caratterizzando l'Italia del periodo: la voce di emittenti come la milanese Radio Popolare, la Radio Alice di Bologna, la romana Radio Onda Rossa (solo per citare le più note) andava a riflettere gli umori politici del paese, ma soprattutto idee ed istanze di un'intera generazione.
Generazione che, per pochi anni (prima che il riflusso commerciale annullasse lo straordinario spazio di libertà appena aperto) avrebbe azzerato la distanza tra speaker e ascoltatori, modificato completamente i codici espressivi del mezzo, democratizzato l'accesso stesso alle trasmissioni: l'etere era, allora, terreno vergine ed inesplorato, spazio per far sentire la propria voce a chiunque avesse avuto i limitati mezzi necessari per accedervi.
Curiosamente, sono stati in pochi a tentare di raccontare, al cinema, quella stagione breve quanto straordinaria: lo hanno fatto Luciano Ligabue nel 1998 col suo Radiofreccia, Guido Chiesa nel 2004 in Lavorare con lentezza, oltre a Marco Tullio Giordana (che si andava ad inserire però in un contesto più ampio) col suo biopic dedicato a Peppino Impastato, I cento passi. Su altre e più piccole dimensioni, quelle del cinema indipendente, si muove questo Onde Road, docufiction del regista Massimo Ivan Falsetta: un prodotto curioso, ibrido, che vede la presenza nel cast di alcuni dei protagonisti di quegli anni (gli speaker Awanagana/Antonio Costantini e Friedrick Van Stegeren - detto l'Olandese Volante, i membri della storica band Rockets, curatori anche della colonna sonora).
Il reale al servizio della finzione
Presentando il film alla stampa, Falsetta ha dichiarato di aver voluto un po' rivoluzionare le regole del docufiction, almeno per come questo si è sviluppato negli ultimi dieci anni: "Prima, era un'eresia anche solo dire a un documentarista di mettere parti di fiction in un suo lavoro", ha dichiarato il regista. "Poi, si è iniziato ad aggiungere porzioni di finzione, in funzione del racconto del reale. Io ho provato a sovvertire ulteriormente queste regole, rovesciando la cosa". In effetti, l'ossatura di questo Onde Road è un racconto di finzione: un'investigatrice di un fantasioso corpo di polizia, preposto alla censura, sulle tracce di una misteriosa speaker che ha inondato l'etere di trasmissioni anni '70 e '80, interrompendo la normale programmazione radiofonica sul territorio nazionale.
Il film si muove quindi su questo doppio binario (diegesi e materiale documentario) con associazioni abbastanza libere: il montaggio alterna costantemente, senza soluzioni di continuità, la storyline principale (che vede la protagonista, col volto di Barbara Cambrea, fare delle interviste ai personaggi che furono realmente protagonisti di quegli anni, usando la giustificazione narrativa dell'indagine) con interventi di altri nomi storici dell'etere degli anni '70 e '80, posti fuori narrazione; oltre a inserti di frammenti onirici e grotteschi, e ai frequenti interventi dell'improvvisata "voce della libertà" (di cui non vediamo mai il volto). "Il film è costruito proprio sul modello di una radio libera", ha sottolineato Falsetta. "Volevo che la sua visione riflettesse l'ascolto di una radio di quegli anni, che ci fosse la stessa libertà stilistica".
Scelta coraggiosa, va sottolineato, ma che a nostro avviso espone il film a dei rischi: il cinema, infatti, è un linguaggio che ha codici e regole precisi, che possono essere violati solo in virtù di scelte espressive forti. Qui, la schizofrenia del montaggio risulta frastornante, ma non sempre convincente: la gestione di certi raccordi, più che libera, sembra difettosa, mentre lascia un po' perplessi vedere lo stesso personaggio (il già citato Olandese Volante) posto sullo stesso sfondo, interpretare sia un ruolo di fiction, sia quello di se stesso mentre viene intervistato.
Le voci di una terra
Sebbene il film si proponga di raccontare la realtà delle radio libere nel suo complesso, e di ricostruire l'atmosfera del periodo in cui queste fiorirono, la scelta di campo che il regista fa è netta: l'indagine della protagonista, infatti, si svolge tutta in Calabria, ed è nei piccoli centri calabresi che vengono rintracciati speaker, musicisti, artisti e dj che andranno a comporre il mosaico proposto dal film. Falsetta ha giustificato la sua scelta sottolineando le peculiarità di quel territorio, rispetto alla rivoluzione che caratterizzò quegli anni: "Partire dalla Calabria vale doppio, visto che tutti immaginano che le cose lì non possano avvenire. Invece, in quegli anni si è superata una barriera che magari per altri non esisteva. Nel film la Calabria è scenografia e resa di un'atmosfera, è una terra che si è emancipata allora come mai nella sua storia". Scelta, questa, che tuttavia finisce per limitare il raggio d'azione e il respiro della storia, malgrado non fossero queste, probabilmente, le intenzioni iniziali: l'impressione di uno studio antropologico su una terra, colta in un mix di tradizioni, modernità e nostalgia per un passato recente, emerge a più riprese dalla visione. Uno studio che, va detto, presenta anche momenti di grande fascino (il rito religioso a cui la protagonista assiste, in una delle "città albanesi" della regione), alternati ad altri più naif: ma l'impressione è che, a tratti, il quadro generale in cui la storia dovrebbe muoversi si perda un po' per strada. A volte, inoltre, si resta perplessi di fronte ad alcune scelte, e in particolare all'inclusione (nonché all'estensione) di alcune sequenze: aveva davvero senso, solo per fare un esempio, soffermarsi così tanto su un vecchio sketch del duo Battaglia & Miseferi, in un teatro deserto, irrilevante com'è tanto ai fini della storia, quanto a quelli più generali della rappresentazione del film?
Gusto vintage e forza di genere
Malgrado tutti i suoi limiti, in parte derivati dalla natura "fluida" del prodotto (la sceneggiatura è stata rimaneggiata e stravolta a più riprese), in parte dal suo carattere artigianale e indipendente, un esperimento come quello di Onde Road non può che fare simpatia. La protagonista, in una scena, si chiede se si possa rimpiangere anni che non si sono mai vissuti: e la risposta, affermativa, emerge chiara nelle immagini sgranate delle vecchie esibizioni dei Rockets, nelle sonorità della colonna sonora, nell'improbabile quanto (a suo modo) carismatica figura del vecchio Awanagana (per l'occasione in una mise che ricalca quella del personaggio che interpretò in un vecchio cult - di cui vediamo anche qualche spezzone - White Pop Jesus).
Inoltre, il regista compie l'apprezzabile scelta di mescolare al documentario una struttura che è tipicamente di genere, direttamente debitrice a quel cinema che si faceva (e si guardava) in Italia nel periodo preso in esame: l'indagine dell'"Agente Bi" si sviluppa nella logica di una piccola spy story, con digressioni fantascientifiche e lisergiche (il divertente incontro col Fabrice Quagliotti dei Rockets, alieno improvvisato) e una struttura da road movie che, come in molto cinema classico, fa del viaggio una metafora della scoperta di se stessi, e delle proprie reali attitudini.
Certo, avremmo preferito, e lo diciamo con la massima franchezza, una protagonista che sapesse calarsi meglio e con più convinzione nella parte (la recitazione di Barbara Cambrea è un punto debole dell'intero film); avremmo preferito un utilizzo migliore del personaggio dello stesso Awanagana, che scompare incomprensibilmente arrivati a circa metà pellicola, e avremmo preferito una compattezza maggiore dell'intero prodotto, che non compromettesse la libertà stilistica che questo vuole esprimere. Avremmo preferito, anche, una colonna sonora più varia, che riflettesse meglio la musica che si ascoltava nel periodo: ma capiamo bene che ciò non sempre è possibile, per quella che resta una piccola produzione. Il quadro generale, l'atmosfera, il tributo a un periodo solo immaginato (il regista è del 1978) quanto sentito come vicino, emergono comunque con forza sufficiente: magari in modo balbettante, incompleto, a volte scombinato. Ma con una sincerità di intenti che è impossibile negare.
Movieplayer.it
2.5/5