Non fa sconti Alessandro Gassman nel portare al cinema il suo spettacolo teatrale Roman e il cucciolo, Premio Ubu 2010. Dopo tre anni di tournee, la storia dello zingaro spacciatore che lotta per dare un futuro migliore al suo 'cucciolo', al figlio che ha tirato su da solo in un ambiente malfamato, diventa un film potente, violento e aggressivo fotografato in un bianco e nero plumbeo come la pece dal tosco-svizzero Federico Schlatter. In quest'avventura Gassman, qui al debutto alla regia, si è portato dietro molti dei compagni di viaggio che lo hanno affiancato sui palcoscenici italiani. Tra questi il co-protagonista Giovanni Anzaldo, Manrico Gammarota, Matteo Taranto e Sergio Meogrossi. Oltre al cast di Razzabastarda quasi al completo (assente giustificato Michele Placido, in tournée con Re Lear) sono presenti a Roma con Gassman gli autori della colonna sonora Aldo De Scalzi e Pivio e il cantautore Francesco Renga che, insieme a loro, ha firmato la canzone che conclude il film. Nel corso di un breve incontro Gassman e i suoi collaboratori ci raccontano con entusiasmo il loro non facile viaggio cinematografico.
Come è nata l'avventura di Razzabastarda?Alessandro Gassman: Il viaggio di Razzabastarda è lunghissimo. Nel 1984 Robert De Niro ha scoperto il testo del cubano Reinaldo Povod e ha deciso di portarlo in scena per sei settimane off Broadway. La storia aveva un grandissimo cuore e descriveva il rapporto tra un padre emigrante cubano e il figlio cresciuto nel Bronx. Lo spettacolo ha avuto un successo straordinario così, insieme a Edoardo Erba, ho deciso di trasporre il tutto nella realtà italiana trasformando l'immigrato cubano in un rumeno. Nel film abbiamo deciso di esplorare quei mondi che a teatro potevamo solo descrivere perciò i personaggi, da sette, sono diventati quaranta. Da anni collaboro con Amnesty International e ho proseguito la collaborazione anche per questo film che risulta particolarmente adatto perché mostra le vite di persone che vivono in una situazione di degrado. Il mio intento è stato quello di dar vita a un mondo credibile, come ho sempre fatto, affidandomi alle persone che ritenevo più giuste.
Quali difficoltà hai trovato nel passaggio dal teatro al cinema?
Alessandro Gassman: Roman e il cucciolo ha ottenuto un successo teatrale fuori dal comune e io, fin dal primo anno, pensavo al mezzo cinematografico come forma più giusta per raccontare questa storia. Ho trovato il coraggio di fare il film perché Roman ormai esisteva nelle mie viscere, lo avevo fatto mio e con me anche gli attori che già avevano lavorato con me a teatro. E' stato interessante anche integrare nel tutto interpreti nuovi come Michele Placido e Nadia Rinaldi. Dopo una settimana di riprese mi sono spaventato perché mi sembrava tutto così naturale... era come se avessi già visto il film. Quando ho visto l'opera finita ho scoperto con gioia che si avvicinava moltissimo alla mia visione iniziale.
Alessandro Gassman: La storia è credibile, ma non totalmente realistica perché ho scelto di dare una visione di un non luogo al di là della legge. Fisicamente ho messo su dodici chili. Sono felice dei complimenti ricevuti dai rumeni sulla mia interpretazione e sul mio rumeno perché significa che ho ottenuto lo scopo che mi ero posto.
Francesco, come sei entrato a far parte del progetto?
Francesco Renga: Io ho conosciuto Alessandro Gassman sul set di un altro film. Poi Aldo e Pivio De Scalzi sono venuti a casa mia a Brescia a parlarmi del progetto e dopo aver visto il film in versione non definitiva era impossibile non scrivere una canzone su una storia d'amore paterno così bella.
La scelta di questo bianco e nero così irreale da dove proviene?
Alessandro Gassman: Io ho sempre immaginato il film in bianco e nero. Anche a teatro avrei voluto fare lo spettacolo in bianco e nero, ma non era possibile. I motivi dell'assenza di colore sono molteplici. Prima di tutto giravamo in primavera inoltrata, mentre io immaginavo la storia in inverno e il bianco e nero ha reso il tutto più cupo; inoltre l'uso della Red Epic mi permetteva di descrivere un mondo che io immagino senza colori, grezzo, poco elegante. Ho messo nel film le cose che mi fanno paura come gli aghi, il sangue. Tutto ciò che nella vita non posso guardare senza sentirmi male. La Red ci permetteva di entrare dentro alle cose, di fotografare da vicino questi dettagli e il mio operatore ha fatto un lavoro enorme girando tutto con la macchina a spalla.
Federico Schlatter: La suggestione principale per la fotografia è stata lo spettacolo teatrale. Alessandro mi ha detto di voler mettere un tulle nero davanti alla scena rendendo tutto più faticoso alla vista per poi farlo cadere alla fine rivelando una realtà meno interessante di quella vista finora. Io ho cercato di rendere quest'uso della suggestione con la fotografia.
Quanto c'è di pasoliniano in questa periferia degradata?Alessandro Gassman: Io credo che se Pasolini fosse ancora vivo potrebbe regalarci dei film e delle storie meravigliose fotografando il presente di quest'Italia in continua evoluzione. Non c'è stata una volontà precisa di citarlo, ma certamente la sua influenza pesa moltissimo sulla mia arte a livello inconscio. Un riferimento più volontario è L'odio di Kassovitz, un film che amo e che ho visto decine di volte. All'epoca le periferie francesi erano nella situazione in cui sono le nostre oggi e il film era in bianco e nero come il mio. Anche Larry Clark è un altro mio autore di riferimento.
Hai scelto di girare il film a Latina, città più nera e più multicolor d'Italia. Queste sue caratteristiche hanno pesato nella decisione della location?
Alessandro Gassman: Sì, la scelta di Latina è stata ben ponderata. La sensazione di multietnicità si sente amplificata perché è una città piccola. Inoltre, essendo priva di centro, si può riprendere da molti punti di vista perché è un'infinita periferia. Non voglio dire di aver temuto per la nostra incolumità, ma abbiamo girato in un luoghi di degrado estremo, popolati da personaggi che vivono ai margini, ma fotograficamente e cinematograficamente questi luoghi ci sono stati molto utili.